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L’Egitto è un attore strategico nel Mediterraneo. L’analisi di Varvelli

Sugli aiuti militari all’Egitto sospesi da Washington pesa un dilemma. Cosa fare col Cairo? Per Varvelli (Ecfr) è un messaggio: gli Usa sanno che una politica troppo centrata sui valori può far scivolare il Paese verso Cina e Russia

Seguendo l’iter di una procedura iniziata lo scorso anno, il governo degli Stati Uniti bloccherà 130 milioni di dollari di aiuti militari promessi all’Egitto. La ragione: il generale/presidente Abdel Fattah al Sisi non ha fatto “sostanziali progressi nel rispetto dei diritti umani” entro il 31 gennaio 2022, come da esplicita richiesta avanzata da Washington e inserita in un report datato 30 marzo 2021. Una decisone identica era già stata presa dall’amministrazione Trump nell’agosto 2017 (furono bloccati 96 milioni di aiuti, più di altrettanti congelati, anche per via di link tra Egitto e Corea del Nord, e i fondi furono poi sbloccati l’anno successivo).

La questione tocca l’Italia. Sia perché nel rapporto dell’amministrazione Biden si parla anche del rifiuto del Cairo di avviare un procedimento giudiziario per indagare sugli agenti dei servizi di intelligence ritenuti responsabili dell’assassinio dell’accademico italiano Giulio Regeni, e sia per la vicenda dell’arresto dello studente Patrick Zacki. Ma anche perché le relazioni tra Usa ed Egitto hanno riverbero sul Mediterraneo, vista la centralità egiziana nella gran parte dei dossier regionali e visto il ruolo statunitense (in evoluzione) nella regione.

Il blocco, fissato in forma provvisoria a settembre, riguarda non più del 10 per cento degli aiuti militari annuali concessi al Cairo da Washington, che con la presidenza di Joe Biden ha promosso i diritti e i valori democratici come elemento strategico, vettore delle relazioni internazionali, e non può ignorare i giornalisti imbavagliati e illegalmente detenuti dal governo egiziano, così come la stessa sorte che tocca agli oppositori del blocco di potere di Sisi. Si tratta di mosse che in parte riguardano le fondamenta ideologiche del democratico, e soprattutto di un gruppo interno ai Dem che sta crescendo in termini di consensi e di peso nel partito (tanto che per esempio per quella componente del Congresso il taglio doveva essere da 300 milioni e non da 130), e con cui Biden deve fare i conti.

Contemporaneamente sono parte del confronto tra modelli, democrazie — guidate da Washington con l’appoggio europeo — e autoritarismi, rappresentanti da Cina e Russia. Modello quest’ultimo che rischia di essere sempre più allettante per ambienti come quello egiziano, o nelle dinamiche di altri Paesi africani, o ancora nei regni del Golfo (Emirati Arabi Uniti e Arabia Saudita sono stati oggetto di una decisione simile da parte dell’amministrazione Biden). In un’immagine: questo confronto lo si intravede anche nelle presenze alla cerimonia di inaugurazione delle Olimpiadi invernali cinesi, dove ad esempio Sisi sarà presente (anche se nel suo Paese c’è più deserto che neve), mentre molti stati democratici hanno deciso per un boicottaggio diplomatico davanti al mancato rispetto dei diritti umani e civili di Pechino in situazioni come quella nello Xinjiang.

Tuttavia, la decisone di Washington è più simbolica che di sostanza — tant’è che le ong internazionali che si occupano di Egitto tutto sono fuorché soddisfatte. Pochi giorni prima che l’amministrazione ricordasse ai media questo passaggio, sui giornali ci era finito un accordo da 2,5 miliardi con cui 12 velivoli da trasporto militare c-130 e alcuni sistemi radar di fabbricazione americana venivano venduti alle Forze armate egiziane. Da notare che sia le vendite che l’assistenza sono comunque regolate dal decisore politico, anche se le prime sono aiuti (gratis) e le altre business.

Per Washington è necessario approcciarsi con pragmatismo, l’alleanza col Cairo è necessaria: sia perché l’Egitto — lavorando sul Sinai in accoppiata con Israele — è un attore centrale nella lotta al terrorismo jihadista, ambito che prende la maggiore aliquota negli aiuti militari; sia perché è un attore centrale in molte dinamiche regionali, da quelle nel Mediterraneo allargato alla Libia, da Suez al Corno d’Africa allargandosi verso il Golfo Persico e il Sahel. Aree dove Washington deve contare anche (soprattutto) su questi partner per primeggiare contro altre potenze rivali.

Anche per queste ragioni, il dipartimento di Stato nella nota pubblica spiega che l’Egitto ha fatto “notevoli progressi”, mentre nell’approvazione della vendita dei C-130 spiegava che avrebbero rafforzato “un importante alleato non Nato”, un “importante partner strategico”. Parole che fotografano quella che Arturo Varvelli, direttore dell’ufficio di Roma dell’Ecfr, definisce “situazione di dilemma”.

”È qualcosa davanti a cui più volte in passato si sono trovati gli occidentali, per primi gli americani quando si muovono in Medio Oriente — spiega Varvelli a Formiche.net — e ancora di più l’Egitto è sempre stato un caso particolare in questo genere di situazioni. Un dilemma tra una politica che tiene più conto dei valori e una più realista, incarnato già, per ricorrere alla storia, da il presidente Nasser cercava fondi per la diga di Assuan e davanti al rifiuto di finanziamenti americani si avvicinò all’Urss”.

Per il direttore del think tank paneuropeo, questo si tratta di un alert statunitense, un messaggio che ha dimensioni minori rispetto al totale degli aiuti, alle relazioni commerciali militari e ai rapporti che egiziani e americani hanno, e serve a cercare di promuovere un maggiore rispetto dei diritti umani e della rule of law. “Vero anche che Cina e Russia non pongono alcun tipo di vincolo sotto questi piani è ciò potrebbe produrre una saldatura di carattere strategico tra queste due potenze e certi Paesi come l’Egitto”, spiega. “Un rischio l’instaurarsi di questo genere di relazioni durature. Tutto per altro si inserisce nel quadro del disimpegno americano dalla regione”.

Secondo Varvelli sono queste situazioni che dimostrano come la presenza commerciale, economica, militare e politica americana nell’area sia “fondamentale” per evitare che il continente africano e asiatico scivolino completamente sotto l’influenza russa e cinese: “Un asse tra Mosca e Pechino che per altro si sta consolidando, e che per altro sta permettendo ai russi di agire nel modo duro che vediamo sull’Ucraina, sentendosi le spalle coperte da Pechino”.



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