Classe 1955, originario di Kazan, il generale Valerij Gerasimov è l’ombra strategica di Vladimir Putin. Non ha inventato una dottrina, ma un metodo. Che in Ucraina può trovare conferma. Pubblichiamo un estratto del libro di Marta Ottaviani “Brigate Russe” (Ledizioni)
“Nel febbraio 2013, sulla rivista settimanale Voenno Promyshlennyj Kur’er, specializzata in geopolitica e difesa, fu pubblicato un articolo dal titolo Cennost’ nauki v predvidenii, che in italiano è traducibile come ‘Il valore della scienza nella previsione”. A firmarlo è il Valerij Vasil’evič Gerasimov, capo di stato maggiore generale delle Forze armate russe, la carica più alta in ambito militare.
Al momento della sua pubblicazione, l’articolo fu praticamente ignorato. Per uno di quegli strani cortocircuiti che caratterizzano il mio mestiere, un anno dopo, in seguito alle operazioni russe in Ucraina, il contributo di Gerasimov balzò improvvisamente agli onori delle cronache, diventando oggetto di studio dagli analisti di mezzo mondo, che iniziarono ad attribuirgli una valenza profetica. Come se il militare di alto grado, 12 mesi prima, avesse previsto cosa sarebbe successo fra Mosca e Kiev. Da numero uno delle forze armate russe, il generale fu descritto da alcuni quasi come un veggente visionario.
La sua figura fu mitizzata a tal punto che in tutto l’ambiente geopolitico e di difesa si iniziò a parlare della cosiddetta ‘dottrina Gerasimov’, nome che gli è rimasto impresso addosso, nonostante i fiumi di inchiostro spesi per ricollocare la personalità e l’opera nella giusta prospettiva. Il padre di questa definizione è stato Mark Galeotti, uno studioso di primo piano e un punto di riferimento imprescindibile per chi voglia capire a fondo l’Unione Sovietica prima e la Russia poi. Ha usato questa espressione in un suo intervento postato sul suo blog nel 2014, per definire la nuova guerra non lineare russa.
Forse lo ha fatto un po’ ingenuamente, senza prevedere che, data la sua indiscussa competenza nel campo, questa sua definizione sarebbe stata interpretata come paradigmatica dagli studiosi di mezzo mondo. Lo stesso Galeotti cercò di rimediare alla sua ingenuità con un articolo pubblicato su Foreign Policy, in cui ha spiegato che l’espressione ‘dottrina Gerasimov’ era stata utilizzata per dare una definizione a un insieme di idee particolarmente complesso e renderla così più comprensibile e intrigante per i suoi lettori.
Dunque, la ‘dottrina Gerasimov’ non esiste, anche se praticamente tutto l’ambiente accademico continua a chiamarla così. Il motivo risiede nel fatto che gli scritti del generale sono un punto di riferimento fondamentale per comprendere la strategia bellica russa, per quanto non sia certo stato il primo a parlarne. Ma, soprattutto, Gerasimov quando ha pubblicato il suo articolo nel 2013 non aveva previsto assolutamente nulla, né avrebbe potuto farlo.
Vale la pena di soffermarci brevemente su questa figura. Classe 1955, originario di Kazan, Valerij Vasil’evič Gerasimov è quello che si potrebbe definire un bravo e onesto soldato, votato a proteggere il suo Paese. Poche volte lo si è visto senza divisa, nessuno lo ha mai visto sorridere. Come molti della sua generazione, ha visto l’Unione Sovietica dissolversi e il quadro geopolitico cambiare radicalmente nel giro di pochi anni. Da militare di uno dei due Paesi più potenti del mondo, si era ritrovato ad essere militare di un Paese che cercava il suo posto nel mondo.
Ci sono stati eventi internazionali per gli ex sovietici, soprattutto per quelli che in quel sistema credevano, che hanno rappresentato non solo un punto di non ritorno nelle relazioni con l’Occidente, ma quasi anche un trauma psicologico, un motivo di rivalsa. Il primo in ordine di tempo, è sicuramente la dissoluzione della Yugoslavia, tanto che, per alcuni analisti, quelli che sposano il punto di vista russo, ci tengo a sottolineare, si può instaurare un parallelismo fra la strategia utilizzata da Mosca per arrivare all’annessione della Crimea e il piano degli Usa per rendere il Kosovo indipendente. Piano che può essere schematicamente riassunto così: decidere di lanciare una operazione militare, trovare un pretesto appropriato, meglio se ammantato da un principio umanitario (per esempio evitare lo sterminio di civili) e poi agire militarmente in modo da favorire un cambio di regime.
Nel 2004, l’annessione all’Unione Europea delle Repubbliche baltiche, Estonia, Lettonia, Lituania, fu vissuta dalla Russia come un qualcosa a metà fra uno schiaffo e una provocazione, tanto più che proprio questi Paesi, spesso, sono quelli che cercano di portare avanti la linea più dura nei confronti di Mosca. Il Cremlino, poi, nel corso degli anni, ha seguito, e poco gradito, le operazioni militari statunitensi in Afghanistan e in Iraq.
E nel primo caso, quando questo testo è stato chiuso, stava cercando di riprendersi alcune posizioni perse dopo la disfatta subìta dall’Armata Rossa nel 1989, pur con tutte le cautele del caso, visto che la ferita brucia ancora, e non poco, nei tanti veterani rimasti in vita. Il 9 novembre 2012, Gerasimov fu chiamato dal presidente Putin al ruolo più importante che possa sperare di ricoprire un militare in Russia.
L’onore più grande che possa capitare a un uomo come lui. Un titolo che ricorda lo sfarzo dell’impero zarista e la gloria dell’Unione Sovietica, che può contare su oltre 1,2 milioni di soldati. La verità però è che, dietro questa facciata di grandezza e potenza, Gerasimov ereditava il comando in un momento di grande crisi e poco brillante per le forze armate russe. Uno dei compiti principali del Capo dello stato maggiore generale è quello di formulare la futura dottrina di guerra della nazione. A lui toccò anche ridare smalto a formazioni militari dalla storia gloriosa6. Ed è quello che fece. Nell’articolo pubblicato nel 2013 sono contenuti alcuni passaggi chiave per comprendere la nuova filosofia della guerra russa.
“Nel ventunesimo secolo abbiamo visto una tendenza verso la sfocatura dei confini tra gli stati di guerra e pace. Le guerre non sono più dichiarate e, una volta iniziate, procedono secondo modelli che sono ancora sconosciuti. L’esperienza dei conflitti militari, compresi quelli legati alle cosiddette rivoluzioni colorate del Nord Africa e Medioriente, conferma che uno stato fiorente può, in mesi e persino giorni, trasformarsi in un’arena di conflitti armati feroci, diventare vittima di un intervento straniero, e affondare in una rete di caos, catastrofe umanitaria e guerra civile. Certo, sarebbe più facile per tutti dire che gli eventi delle Primavere arabe non sono la guerra, e che quindi non ci sono lezioni per noi militari da imparare. Ma forse è vero il contrario, ossia che proprio questi eventi sono tipici della guerra nel ventunesimo secolo. In termini di entità di vittime e distruzione, le catastrofiche conseguenze sociali, economiche e politiche, questi conflitti di nuovo tipo sono paragonabili alle conseguenze di una vera guerra. Le stesse regole di guerra sono cambiate. Il ruolo dei mezzi non militari per raggiungere obiettivi politici e strategici è aumentato e, in molti casi, ha superato la potenza delle armi nella loro efficacia. Il focus dei metodi applicati in un conflitto si è evoluto nella direzione di un ampio uso di strumenti politici, economici, informativi, umanitari e altre misure non militari, applicate in coordinamento con la protesta potenziale della popolazione”.
In poche righe, vediamo riassunte dal generale Gerasimov molte delle cose di cui abbiamo parlato nelle pagine precedenti, facendo anche notare che, nell’interno documento, come in altri suoi scritti, l’alto ufficiale non usa mai l’espressione ‘guerra ibrida’ a ulteriore dimostrazione di quanto il suo utilizzo riferito alla sfera russa non sia corretto8. Gerasimov inizia il suo intervento parlando delle Primavere arabe e di come queste rappresentino quasi un paradigma del nuovo modo di fare la guerra.
Al lettore potrà sembrare che i russi siano quasi ossessionati dall’argomento. Posso dire che non faccio fatica a capirlo. Ma si tratta ‘semplicemente’ del loro modo di vedere come si è evoluto il mondo. Posto che in Russia, a partire dalla loro lingua meravigliosa, fino ad arrivare al loro modo di pensare, di semplice non esiste nulla. Nell’articolo del 2013 ci sono almeno altri due aspetti che ci interessano. Il primo è tattico e riguarda l’utilizzo sempre più esteso di operazioni asimmetriche, in grado di eliminare il vantaggio del nemico sul piano armato. Fra queste, il generale cita l’impiego di forze speciali o dell’opposizione interna, nonché operazioni di informazione. Quest’ultima è da intendersi in due modi: comunicazione interna ai nuclei militari, ma anche divulgazione di notizie.
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Secondo Nicola Cristadoro, che a Gerasimov e le sue teorie ha dedicato un libro molto interessante e completo, il generale ha persino attuato il superamento del concetto di ‘guerra asimmetrica’, perché la strategia ‘grigia’ o ‘non lineare’, viene usata in modo sempre più sistematico e strutturato. Cambiano anche le forze in campo. Non più solo soldati ‘ordinari’, ma anche forze speciali, cosacchi, mercenari, paramilitari stranieri, ong, ovviamente al soldo del governo russo, hackers e cyber warriors.
Proprio di queste due categorie ci occuperemo nei prossimi capitoli. Intanto, possiamo anticipare che la infowar, l’aspetto che interessa maggiormente a questo libro, è anche quello su cui i russi hanno investito maggiormente, perché si applica non solo alla tecnologia più d’avanguardia, ma anche alla comunicazione strategica, alla guerra psicologica e alla manipolazione dell’opinione pubblica. E pure qui, non possiamo non notare un legame con il passato che ritorna.
Che si chiami infowar o che si chiami maskirovka, diciamo che i russi con le arti della negazione e dell’inganno hanno un rapporto privilegiato. In particolare, la infowar ha due obiettivi. Da una parte si vuole limitare la libertà di informazione interna. E chi segue le vicende russe, sa che problemi ci siano in tema di libertà di stampa. Serve a evitare che sul territorio nazionale possano verificarsi, opportunamente fomentate dall’Occidente, rivolte come quelle delle rivoluzioni colorate o delle cosiddette Primavere arabe.
Ha però una funzione anche offensiva, che consiste nell’influenzare ambienti economici, politici nonché l’opinione pubblica a vantaggio degli interessi russi. Gli obiettivi principali sono le nazioni che si percepiscono come più ostili, alle quali possono toccare in sorte atti di sabotaggio, diversione, disinformazione, terrorismo informatico, manipolazione e intimidazione.
Una guerra dove i campi di battaglia principali diventano la rete e la psiche umana e, viste le isterie collettive spesso provocate da fughe di notizie che poi si rivelano false e da account social interessati a tutto, ma non a fare informazione, possiamo dire che Gerasimov e quelli che lo hanno ispirato e aiutato hanno creato un mostro, destinato a farci compagnia ancora per molto tempo. Il tutto per un bisogno di garantire la propria sicurezza interna, a scapito di quella degli altri, le cui radici sono da ricercare nell’esasperazione della sindrome di accerchiamento, frutto di una storia travagliata, alimentata da un forte nazionalismo e, in qualche modo, anche dalla mitizzazione delle proprie forze armate.
Sta di fatto che con la cosiddetta ‘dottrina Gerasimov’ bisogna conviverci e capire come funziona. Fino a questo momento ci siamo occupati soprattutto di contesto storico e di scienza militare. Dai prossimi capitoli vedremo quali siano i nuovi soldati e le nuove armi di questa guerra ‘grigia’.