Dalla grande industria alle più vulnerabili pmi nei settori strategici fino alle università, fucine del know-how. C’è un intero sistema nel mirino dello spionaggio industriale e i danni possono essere enormi. Ma non tutti hanno i mezzi per farci i conti. L’analisi di Roberto Setola, direttore del Master Homeland Security, Campus Bio Medico di Roma
L’importanza degli asset intangibili, quali la proprietà intellettuale e i trade secrets, sul valore totale d’impresa è un aspetto di crescente interesse pubblico. Questa crescita è dovuta sia alla maggiore rilevanza a livello mondiale di tutto ciò che è legato alla società della conoscenza, ma anche ai crescenti costi connessi con lo sviluppo di nuovi prodotti.
Incremento dei costi dovuti, giustamente, alla presenza di sempre più stringenti normative che impongono la realizzazione di significative campagne sperimentali prima dell’immissione in commercio di un bene, ma anche alla luce di scenari fortemente mutevoli che contribuiscono ad aumentare il rate-to-fail delle “ipotesi” di innovazione. Giusto per avere un’idea, le spese di innovazione tecnologica (R&D) nelle 10 imprese leader mondiali sono salite in un solo anno, dal 2017 al 2018, del 14,8 percento, passando da 120,6 a 138,5 miliardi di dollari.
Purtroppo le aziende non sempre pongono adeguata attenzione agli aspetti di tutela e protezione delle proprie attività di R&D che possono essere oggetto di “predazione”, ovvero di esfiliazione, da parte di competitor sia nazionali che, in un mercato sempre più globalizzato, stranieri.
È evidente che per un soggetto industriale o statuario poter disporre, tramite azioni di spionaggio o attività analoghe, del medesimo know-how dei suoi competitor equivale ad un doppio vantaggio in termini di riduzione dei costi di sviluppo (e quindi la possibilità di agire sulla leva economica per erodere quote di mercato) che di possibilità di superare barriere tecnologiche che diversamente precluderebbe l’accesso a determinati mercati.
In questo modo lo spionaggio può permette ad aziende che operano in modalità non-corretta di accedere a mercati ad alta profittabilità senza dover incorrere negli elevatissimi costi finanziari, scientifici e organizzativi delle attività di ricerca e sviluppo. Inoltre, tale attività comporta, oltre che l’indebito arricchimento di chi sottrae i segreti industriali, anche un depauperazione del patrimonio intangibile del soggetto che subisce il furto a causa della minore possibilità di rientrare degli investimenti effettuati con uno svantaggio immediato in termini di riduzione di cash-flow ma anche, e vorrei dire soprattutto, di riduzione della propensione all’investimento tecnologico con conseguente graduale emarginazione della azienda stessa soprattutto dai mercati ad alta intensità tecnologia.
Recenti studi condotti in Germani hanno evidenziato come questo sia un fenomeno drammaticamente concreto, arrivando ad ipotizzare che una azienda su due abbia subito nell’ultimo quinquennio almeno un tentativo di esfiliazione di informazioni relative alle proprie attività di R&D.
Tali preoccupazioni sono presenti anche nelle premesse della Direttiva 2016/943 “on the protection of undisclosed know-how and business information (trade secrets)” dove si evidenzia che “le imprese innovative sono sempre più esposte a pratiche fraudolente intese ad appropriarsi illecitamente segreti commerciali, quali furto, copia non autorizzata, spionaggio economico o violazione degli obblighi di riservatezza, aventi origine sia all’interno che all’esterno dell’Unione”. L’Europa, come specificato nel documento
“La scala e l’impatto dello spionaggio industriale e del furto di segreti commerciali attraverso il cyber” appare particolarmente vulnerabile a questa minaccia sia alla luce della intrinseca qualità delle attività di R&D portate avanti sia dal mondo industriale che da quello accademico, ma soprattutto per il ruolo che svolgono in Europa le piccole e media imprese (PMI).
Infatti se la grande industria ha, di norma, strumenti per contrastare il fenomeno dello spionaggio industriale, questo non può dirsi per le PMI che sono drammaticamente esposte a questa tipologia di rischi senza avere nessuna contezza né della effettiva minaccia né degli strumenti basilari per il contrasto. Problema maggiormente avvertito in Italia alla luce del fatto che oltre il 92% delle nostre aziende è una PMI e di queste circa 16.000 sono PMI innovative.
Questo anche alla luce del fatto che non vi è una adeguata awareness anche a causa del fatto che la quantificazione del fenomeno è estremamente complessa al punto che non esistono statistiche attendibili. Lo stesso documento di Impact assessment a corredo della Direttiva 2013/914 sulla protezione dei segreti commerciali afferma che “anche la sola raccolta sul numero totale di violazione dei segreti commerciali all’interno dell’Unione Europea è un compito impossibile” arrivando ad affermare che anche i servizi di intelligence degli Stati membri “brancolano nel buio (groping in the dark)”.
Sebbene il tema dello spionaggio fra Stati sia ampiamente analizzato nella letteratura scientifica gli aspetti connessi con lo spionaggio industriale ai danni delle attività di R&D ha trovato nella comunità accademica internazionale minor attenzione. Solo recentemente, e con l’incremento della minaccia cyber, il tema sembra aver suscitato un qualche interesse “scientifico”.
Fra i pochissimi studi quantitativi si può citare il lavoro di Glitz & Meyersson (2020) che prova a dare evidenza scientifica dell’efficacia dell’attività di spionaggio industriale con particolare riferimento agli aspetti di R&D. Il lavoro effettua uno studio su circa 190.000 documenti estratti dagli archivi della Stasi e relativi al periodo tra il 1970 e il 1989. Lo studio dimostra come lo spionaggio non solo ha consentito di ridurre il divario tecnologico tra le due Germanie ma è stato talmente di successo che la Germania Est ha potuto ridurre i propri sforzi in R&D pur mantenendo un livello di qualità e produzione industriale allineato a quello della Germania Ovest .
Non esiste, però, praticamente nulla per quel che concerne lo studio del fenomeno con riferimento alle attività di esfiliazione di know-how da PMI, enti di ricerca e università. Sebbene, come affermato da Bill Evanina, top counterintelligence official presso lo US National Intelligence, le università ed i centri di ricerca sono i posti dove “hanno origine la scienza e la tecnologia – ed è per questo che sono il posto migliore per rubarle”.
Ciò è dovuto da un lato alla intrinseca “apertura” di questi enti che favoriscono la presenza all’interno del proprio perimetro di una moltitudine di soggetti con legami più o meno laschi con l’organizzazione e dall’altro la quasi totale assenza di una cultura della sicurezza nell’interno degli organi di direzione e governo e più in generale una innata insofferenza da parte dei ricercatori in tutto ciò che viene percepito come meccanismi per vincolare la prioria creatività/libertà.
A questo aspetto si unisce la crescente mobilità delle persone e dei capitali unitamente alla oramai onnipresenza dimensione cyber, elementi tutti che introducono nuove tipologie di minacce che possono minare alla base gli sforzi che i singoli attuano in termini di R&D a beneficio di entità in grado di depauperare, con strumenti leciti e/o illeciti, i patrimoni di competenze accumulati, sviluppati e finanziati da soggetti privati ma anche, vorrei sottolineare, ricorrendo a fondi pubblici.
Nei prossimi anni grazie al PNRR le aziende italiane, unitamente alle università e ai centri di ricerca, avranno la possibilità di sviluppare un significativo bagaglio di competenze e conoscenze in una miriade di settori. Tale patrimonio sarà uno degli elementi fondamentali per garantire una effettiva competitività del nostro settore produttivo nei successivi decenni.
L’aspetto che emerge è che molti dei soggetti che oggi fanno innovazione hanno solo in (piccola) parte strumenti metodologici e culturali atti a cogliere la rilevanza sistemica della loro attività e l’adeguata awareness rispetto alle possibili minacce. È fondamentale che essi comprendano la strategicità degli investimenti che il Paese farà in innovazione, investimenti il cui obiettivo va al di là del successo del singolo, sia esso ricercatore o azienda, ma ha quale obiettivo il rilancio del Paese. Se come sottolineato da tantissimi è fondamentale che i soldi del PNRR siano spesi bene, è altrettanto indubbio – anche se non sempre adeguatamente esplicitato – che i risultati che otterremo soprattutto nel campo dell’innovazione siano adeguatamente tutelati e protetti essendo questo il primo prerequisito per una loro successiva valorizzazione.