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Ivan, ragazzo soldato in Ucraina. Ciccotti racconta il capolavoro di Tarkovskij

Fine gennaio 1962. In Ucraina il regista russo Andrej Tarkovskij girava quello che sarebbe stato un capolavoro degli anni Sessanta: “L’infanzia di Ivan” (Leone d’oro a Venezia). Un film sulla guerra contro l’invasione nazista. Russi e ucraini combattevano insieme. Il set naturale, che ricostruiva il Fronte del 1944, oggi potrebbe tornare a essere campo di battaglia vero. Ma stavolta tra fratelli slavi

Negli ultimi giorni del gennaio 1962 il russo Andrej Tarkovskij, tra i boschi e le rive del Denepr, in Ucraina, finiva di girare L’infanzia di Ivan (Ivanovo detstvo,1962). La troupe proveniva da Mosca con diversi componenti della regione ospitante. A quel tempo c’era l’Unione Sovietica. Premiato a Venezia (Leone d’oro) è forse il film, insieme più poetico e drammatico, dedicato alla tragedia della Seconda guerra mondiale vista attraverso gli occhi innocenti, addolorati ma decisi di un ragazzo-soldato di dodici anni.

Intorno a Ivan (Nikolaj Burlajaev: poetico, asciutto, drammatico; un ragazzo-attore impeccabile, raro nel cinema), orfano e soldato coraggioso senza vanteria, Tarkovskij riscrive il racconto di Vladimir Bogomolov, alternando due registri: il realistico (le brevi scene di guerra; i deserti e silenti villaggi devastati; il fango) e l’onirico (Ivan e la mamma al pozzo; i giochi con i ragazzi).

Nel 1962 nessun regista era riuscito a fondere insieme queste due anime con tale maestria. Come dire il Roberto Rossellini di Paisà e il Vittorio De Sica di Miracolo a Milano. Tra i boschi di betulle della verde Ucraina non può nascere l’amore tra il bel tenente medico Masha (Valentina Malyavina; occhi neri e grandi, quello sguardo limpido e innocente che in quegli anni vedevamo sul volto di Claudia Cardinale) e il capitano Kholin (Valentin Zibkov). Nonostante quel bacio forte e casto, non ci si può innamorare, la guerra può portarti via all’improvviso. Inoltre, in quella natura violentata dalla guerra, possono prendere corpo i sogni angoscianti o poetici di un adolescente.

L’infanzia di Ivan è il primo film post-moderno tutto giocato sul togliere narrativo. Anacoluti, accenni, ellissi, salti. L’irrompere del tragico recente passato di Ivan, alternato ai ricordi della gioia perduta, sono di una plasticità scenografica e con soluzioni registiche talmente innovative da raggiungere un rarefatto lirismo, a conferma di una autentica vena creativa (il regista era figlio del poeta Arsenij Tarkovskij).

La tenera scena con mamma e figlio intorno al pozzo, in estate, interrotta con la morte improvvisa della giovane donna uccisa da una raffica di mitra, mentre sta spiegando al ragazzo della stella riflessa nel fondo, tutta risolta con un montaggio alternato di plongée e contre-plongée dall’interno del pozzo, è da anni studiata in ogni scuola di cinema.

Come felliniana ante litteram quella con le mele seminate dal camion in movimento, con i due ragazzi seduti nel cassone sulle mele, e i cavalli, in strada, che, buñuelamente, le mangiano a delicati morsi. Oppure la splendida corsa finale sulla riva del fiume di Ivan con la sua compagna di giochi (chiaro omaggio al Truffaut de I quattrocento colpi, 1959), sorridenti, verso la vita, con l’inquadratura che chiude su un tronco nero e secco, morto.

Il cinema slavo portava per la prima volta al centro del racconto un bosco di betulle (dopo avremo Gli amori di una bionda, 1966, Miloš Forman; Il bosco di betulle, 1971, Andrzej Wajda) come luogo topico dove lasciar liberi i sentimenti di sgorgare. Tarkovskij avvolge e accarezza i tronchi delle giovani betulle con carrelli e panoramiche, sino a lanciarsi addosso ai fusti con la camera a mano, come i soldati incontro al destino (è la scena in cui Masha cerca di soffocare il suo nascente amore per il capitano Kholin).

Il giovane Tarkovskij, stilisticamente, omaggia il suo docente di regia al VGIK, Michail Romm (i contro-plongée debbono qualcosa a Quando volano le cicogne, 1958; ma anche a Rashomon, 1950, Akira Kurosawa). La declinazione narrativa tarkovskijana sta nel rigenerare tali soluzioni tecniche tramite inedite varianti. L’incipit del film, con il carrello verticale su fusto di una betulla, sino in cima all’albero, tale poi da inquadrare la radura sottostante in campo lungo, con Ivan che entra in campo, tutta giocata sulla suspense visiva, è di una forza narrativa spiazzante.

Tarkovskij, riuscì a farsi finanziare e a realizzare un film sulla Seconda guerra mondiale evitando la prevedibile propaganda, come voleva la censura dopo la lettura della sceneggiatura, trasformandolo invece in un saggio esistenzialista alla Jean Paul Sartre. Il film ci racconta un viaggio di formazione attraverso la vita e la morte, non solo per un preadolescente ma anche per dei giovani adulti, Masha e il tenente Galtzev. Senza drammatizzare, senza gridare, con il dolore interiorizzato, con le notti ospitanti inattesi sogni del passato, con i gesti e parole pausati dagli spazi bianchi della poesia.

L’infanzia di Ivan, sia in Unione Sovietica che in Occidente, fu accusato, da diversi critici, di eccedere nell’esercizio formalistico o nello sperimentalismo fine a se stesso (le rammentate scene oniriche di Ivan o quelle sentimentali tra Masha e Kholin nel bosco). Soluzioni stilistiche che, invece, con il tempo, acquisteranno sempre più pregnanza estetica.

Il fango, il cielo grigio, i mozziconi di case e fattorie di legno squarciate e annerite da esplosioni e incendi, l’acqua gelida del Denepr, gli abiti e le divise fradice, sono natura e oggetti scolpiti dalla luce. Quell’elemento che avvolge e trafigge le storie di questi uomini e donne al fronte. A sua volta la luce marca il tempo del giorno e della notte. Il tempo è, per Tarkovskij che rilegge S. Agostino, fusione di passato e presente, o, se vogliamo, un presente continuo senza confini. In altri termini, il racconto del cinema. Quel tempo che nei bui tunnel della Storia è senza tempo.

Per dirla con il vecchio scosso dalle bombe, quasi balbettante, intento a difendere brandelli ungarettiani della sua izba di legno, tenendo un gallo in braccio, sorpreso da due fili di lacrime che solcano il rugoso viso: «Dio mio, quando finirà la guerra?».



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