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Kazakistan, una crisi che ci riguarda (da vicino)

Mentre l’Europa tiene il fiato sospeso per l’escalation in Ucraina, dimentica una crisi che è molto meno lontana di quanto sembri. L’Occidente non può e non deve permettersi di tagliare i ponti con il Kazakistan. L’analisi di Stefano Stefanini, Senior advisor Ispi

L’Ucraina tiene col fiato sospeso. Per l’Europa sono in gioco pace e stabilità, per Kiev l’indipendenza, per Mosca l’egemonia regionale. Per ripristinare la terza Vladimir Putin mette a rischio le prime e di minaccia la seconda. Per il presidente russo la sicurezza nazionale equivale ad una sfera d’influenza coincidente con l’ex-condominio sovietico. Fatta eccezione per gli evasi baltici, chi vi apparteneva o si allinea e si piega, come Belarus, o non si allinea e va piegato, come l’Ucraina.

Una terza opzione è di adattarsi senza contrastare mai Mosca ma senza farsene legare le mani: fedeltà premiata con libera uscita. È la via kazaka. Quanto rimane aperta dopo la violenta crisi che ha scosso il Paese nelle prime due settimane di gennaio? Per uscirne il Kazakistan ha bussato alle porte del Cremlino, ben felice di trovare un inquilino che volontariamente sceglie il rafforzamento dell’influenza russa. Inevitabilmente accompagnata da un aumento del canone.

Resta a vedere se il rafforzamento, per necessità più che per scelta, dei legami con Mosca precluda al Kazakistan la prosecuzione di costruttivi rapporti con l’Occidente. I legami con Usa, Europa e Giappone, prevalentemente in campo economico-commerciale ed energetico, avvantaggiavano l’uno e gli altri senza porre in discussione l’alleanza con la Russia. La pragmatica collaborazione ed aperura internazionale rifletteva e riflette un interesse nazionale kazako che risale lontano. Echeggiava già in tempi sovietici, quando il Kazakistan non era indipendente – né pensava di diventarlo.

Nella primavera del 1991, chi scrive incontrò Nursultan Nazarbaev,  allora Presidente del Kazakistan Ssr, repubblica dell’Unione Sovietica. Giovane e energetico, non perse tempo. “Voglio vendere il mio petrolio e il mio cotone ai prezzi di mercato mondiali”. Il neo-nominato presidente kazako non ce l’aveva con l’Urss come entità politica ma come camicia di forza economica che soffocava il potenziale del proprio Paese. Voleva solo la libertà di commerciare col resto del mondo e di aprirlo agli investitori internazionali. Era però assolutamente determinato ad ottenerla – entro l’Urss. Quando l’ottenne, un anno dopo, era accompagnata da indipendenza e sovranità statale. Se la tenne ben stretta.

Da allora il Kazakistan è molto cambiato. Gli interessi nazionali no. La politica estera “multi-vettoriale” sviluppata da Nazarbaev nei quarant’anni al potere li rispecchia accuratamente. Sono fondamentali che difficilmente cambiano. La crisi interna può aver definitivamente marginalizzato l’ex-presidente, ma qualsiasi successore non punterà a bilanciare dipendenza dalla Russia, essenziale alla sicurezza, e apertura a commercio e investimenti internazionali, indispensabili all’economia specie nei settori strategici di petrolio e gas. Le porte del Kazakistan, quanto meno quelle economiche e energetiche, rimarranno aperte all’Occidente. Anche se con l’agguerrita concorrenza cinese, in aggiunta ai contrasti politici con la Russia.

Le prospettive occidentali in Kazakistan poggiano su un delicato equilibrio. I recenti eventi hanno scosso la fiducia nella stabilità istituzionale, per non parlare di un percorso di graduali riforme del sistema politico. Dare alla polizia istruzioni di “far fuoco senza preavviso” è un prezzo inaccettabile per il ripristino dell’ordine pubblico. Ma le motivazioni strategiche per non perdere l’accesso e al paese chiave dell’Asia centrale sono tanto forti per l’Occidente quanto sarebbe dannoso per il Kazakistan tagliarsi fuori dalla cooperazione economica e investimenti occidentali.

Il presidente Kassym-Jomart Tokayev ha la possibilità di rimettere in rotta il Paese, con un discreto incoraggiamento sulla direzione di marcia da parte di Usa e Ue. Le relazioni future dipenderanno dalla sua capacità di riunire il paese e ristabilire il suo ruolo di stabilizzatore regionale in una regione altamente instabile, nonostante la nuova dipendenza dalla Russia per la propria sicurezza interna – nessuna illusione a riguardo di quest’ultima.

Cosa realisticamente aspettarsi da Tokayev? Le dimensioni essenziali alla credibilità della sua leadership sono tre: riconciliazione nazionale per ristabilire quella stabilità interna che ha fatto del Kazakistan una meta attraente per gli investitori internazionali; conferma dell’indirizzo modernizzatore della sua presidenza per avvicinarla alla nuova generazione dei millenials dell’Asia centrale – nello spazio informatico non ci sono Paesi landlocked; rispetto di diritti umani, legalità e procedure giudiziali sulla base di standard internazionalmente accettabili.

Quest’ultimo aspetto sarà la prima cartina da sole nell’immediato dopo-crisi che ha visto l’arresto di figure come Karim Massimov, bruscamente destituito da capo dell’intelligence kazaka. La protesta popolare è stata innescata da disagi economici reali. Precostituire capri espiatori dei disordini che sono seguiti non farebbe molto per ridare credibilita’ al Paese.

A differenza dell’Ucraina, il Kazakistan non mette a rischio la sicurezza europea. In un’Asia centrale presa a sandwich fra Russia e Cina, il gioco è geopolitico e geoeconomico. Mette alla prova la pazienza strategica di Usa e Ue. Le proteste all’inizio di gennaio hanno sollevato legittime preoccupazioni umanitarie e sui diritti umani. Tuttavia, nonostante i conflitti interni, sarebbe prematuro cancellare i legami che si andavano costruendo fra l’Occidente e il Kazakistan. Mantenendo un dialogo pragmatico – ma onesto – a doppio senso, il rapporto può essere tenuto al riparo dal confronto con Mosca. È troppo presto per dare il Kazakistan per perso.

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