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Molière a passeggio. A quattrocento anni dalla nascita del pensatore francese

Molière era, in punto di sua identità, un estraneo, forse un giullare, sicuramente un genio: si può attribuirgli una dose di alienazione, nel senso che scriveva e operava alla corte di Re Luigi XIV. Nonostante questo, è legittimo chiedersi chi abbia davvero incarnato lo spirito del tempo, tra i due uomini

Esattamente il 15 gennaio nasce Jean-Baptiste Poquelin, detto – e universalmente noto come – Molière.

L’anno è il 1622: quattrocento anni orsono. Molière lascia ai lettori dell’oggi testi moderni, commedie teatrali che riguardano molti dei moti d’animo che contraddistinguono l’individuo per come è a tutti noto. Si è in piena filosofia, di conseguenza non è il caso di tirare in ballo la psicologia e i profili caratteriali dei volti ideati dall’Autore.

Anzitutto un abbozzo di biografia: parigino, è inizialmente indirizzato verso gli studi giuridici (!) dal padre; tuttavia il giovane decide di fondare una propria compagnia teatrale (si vedano l’utile scheda di R. Albanesi, Manuale di cultura della letteratura, p. 73, Tecniche nuove, 2021, e la relativa voce dell’Enciclopedia Treccani), dagli alterni successi. Ad ogni modo, l’A. ha formazione giuridica, e con ogni probabilità ha frequentato i corsi del filosofo Pierre Gassendi (anche teologo e astronomo, oltre che teorico del pensiero realista).

Molière era, in punto di sua identità, un estraneo, forse un giullare, sicuramente un genio: si può attribuirgli una dose di alienazione, nel senso che scriveva e operava alla corte di Re Luigi XIV. Nonostante questo, è legittimo chiedersi chi abbia davvero incarnato lo spirito del tempo, tra i due uomini: è del tutto probabile che sarà il Nostro a raggiungere l’eternità. Lo stesso dilemma si può porre con riferimento a tutti i grandi letterati e artisti, e al loro rapporto con i leader del loro tempo: William Shakespeare e la Regina Elisabetta I, Dante Alighieri e il Papato, eccetera.

È necessaria una precisazione: il dialogo, o la sua mancanza, tra il diritto (inteso come forza disciplinante) e l’arte è sempre stato burrascoso, fino a raggiungere, nei momenti maggiormente aridi, una totale separazione. Si può pensare agli ultimi cinquanta oppure settant’anni del nostro tempo, in cui le discipline giuridiche, sociali ed economiche sono state indirizzate a obiettivi ben definiti, quali il profitto, l’inserimento professionale dei suoi operatori, e quant’altro. Oggi si assiste a un fortunato ricongiungimento tra la giustizia e la letteratura; ci si è resi conto, infatti, che disgiungere il diritto dalla cultura contemporanea non è operazione saggia, per una serie di motivi. Il diritto si impoverisce e, dall’altra parte, la cultura si incattivisce, prendendo derive speculative tutt’altro che costruttive. La tecnica giuridica non è colpevole: la tecnica è sempre innocua. Ma l’arte non può permettersi il lusso del cinismo. Dunque ecco di nuovo Law & literature, l’importanza delle humanities (ovverosia il patrimonio umanistico), e così via.

E Molière? Balza all’attenzione pubblica il suo cinismo, quantomeno nei temi trattati; in realtà l’approccio di Molière è vicino allo stoicismo, che in sé non può che contenere rami di ben maturata amarezza. L’Autore scriveva in versi alessandrini, dunque da leggere e recitare con precisa cadenza; è riduttivo dunque ritenere i suoi testi universalmente traducibili e suscettibili di facile spaccio. Prima facie sì, è possibile goderne in libertà, e questo è certo: ma a un occhio e a un orecchio attenti le sue opere sono intrise di pura filologia. Non a caso, le traduzioni italiane, tanto scritte quanto orali, si sprecano (di Rizzoli, Garzanti, eccetera); ognuna presenta la propria sfumatura. Forse non vi è ancora una trasposizione in linea con i tempi, che sia di facile fruizione e di scorrevole ascolto.

In questo senso si può includere l’ottimo Molière in bicicletta, film del 2013 di Philippe Le Guay con Fabrice Luchini e Lambert Wilson, i quali a loro volta interpretano (a parti alternate) Alceste e Filinte de Il misantropo. Il misantropo è una figura tragica, se non anche ridicola, ma di certo integerrima: Alceste effettua una scelta di vita rigorosa, rimanendo uomo tutto d’un pezzo. Filinte è anch’egli un buon cittadino, per certi versi: comunicativo e affettuoso, seppur superficiale. In fondo, per richiamare Kierkegaard, il quale si è espresso sul punto, l’uomo etico è capace proprio di apertura comunicativa: sa come utilizzare il linguaggio, si diverte a utilizzarlo (si legga M. Fortunato, Kierkegaard, p. 76, Mondadori, 2021).

Oppure, quella tra i due (sono nobili francesi del Seicento) è una lotta per il potere, o comunque una sua fantasia? Ecco di nuovo le posizioni concettuali, il ruolo del singolo, la veste politica dell’individuo. Secondo l’illuminante ricostruzione di Morandini (si veda la voce dell’omonimo dizionario, Zanichelli, 2022), il protagonista “passa dalla misantropia vendicativa dell’inizio a un nobile distacco, finché nel finale si riconcilia con se stesso. In qualche modo i due finiscono per farsi del bene l’un l’altro”.

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