La casa automobilistica taglia il traguardo dei 30 punti vendita in Cina inaugurandone uno nella capitale della regione, che il Wsj definisce la cartina di tornasole delle tensioni tra Washington e Pechino
La casa automobilistica statunitense Tesla di Elon Musk – “l’unica celebrità di Big Tech il cui cuore batte a destra”, come l’ha definito Federico Rampini sul Corriere della Sera – ha aperto una nuova concessionaria a Urumqi, la capitale dello Xinjiang, la regione cinese in cui vive la minoranza uigura che – secondo le accuse degli Stati Uniti e di diverse Ong e organizzazioni internazionali – è perseguitata e costretta al lavoro forzato. Lo ha comunicato la stessa casa automobilistica fondata attraverso la piattaforma di microblogging cinese Weibo.
IL NUOVO CENTRO
Nel post su Weibo, che celebra la sempre più importante presenza di Tesla in Cina, si legge: “Nell’ultimo giorno del 2021 ci siamo incontrati in Xinjiang. Nel 2022 lanciamo assieme lo Xinjiang nel suo viaggio elettrico”. Con l’apertura di questa nuova sede sono 30 i punti vendita di Tesla in Cina. Tesla è stata la prima casa automobilistica straniera a costruire un impianto di produzione interamente di proprietà in Cina, la gigafactory di Shanghai, dove produce soprattutto i modelli S e 3, i più venduti nel Paese asiatico.
LA MOSSA DI BIDEN A DICEMBRE
A dicembre, il presidente statunitense Joe Biden ha firmato un provvedimento che vieta la maggior parte delle importazioni dallo Xinjiang sulla base delle accuse secondo le quali nella regione semi-autonoma verrebbe utilizzato il lavoro forzato della minoranza uigura, addebiti sempre respinti da Pechino. La Casa Bianca ha anche sanzionato diverse società cinesi e individui con l’accusa di aver partecipato alla campagna di assimilazione forzata degli uiguri, la popolazione di religione musulmana che vive nella provincia.
La nuova legge impone sanzioni ai responsabili del lavoro forzato nella regione e vieta le importazioni a meno che gli Stati Uniti non stabiliscano con “prove chiare e convincenti” che non sono stati effettuati con il lavoro forzato. Per questo, l’apertura di un punto vendita in Xinjiang, se non dovesse comportare l’uso di lavoro forzato, non dovrebbe innescare automaticamente alcuna sanzione.
LA CARTA DI TORNASOLE
Ma lo Xinjiang, spiega il Wall Street Journal, è diventato una cartina di tornasole per le aziende straniere che fanno affari in Cina. Coloro che si avvicinano alla regione rischiano problemi normativi e contraccolpi reputazionali nei loro mercati interni, mentre quelli che la evitano affrontano l’ira del governo di Pechino e dei consumatori cinesi sempre più nazionalisti. Lo hanno già assaggiato diversi grandi marchi stranieri.
In passato H&M, Nike e Adidas sono stati boicottati in Cina, per aver preso posizioni contro l’uso del lavoro forzato nello Xinjiang. Dall’altra parte, come raccontato anche su Formiche.net, dopo l’approvazione della legge da parte della Camera dei rappresentanti, il colosso tecnologico statunitense Intel si era scusato con clienti e partner cinesi per aver annunciato un boicottaggio di prodotti e manodopera dalla Xinjiang. In precedenza, l’azienda aveva scritto ai propri fornitori annunciato di voler affrancare la propria catena di approvvigionamento dai prodotti della regione cinese, adempiendo alla legislazione statunitense in materia. La ritrattazione è arrivata con una dichiarazione in lingua cinese sulla piattaforma WeChat, in cui Intel ha espresso l’intenzione di “diventare un partner tecnologico affidabile e ad accelerare lo sviluppo congiunto con la Cina”.
(Foto: Tesla, Weibo)