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Nel rebus Quirinale la saggezza dei padri costituenti. Scrive Polillo

Se si volesse seguire la strada indicata dalla Costituzione, prescindere dal volere dell’Assemblea Nazionale sarebbe impossibile. Ha, quindi, ragione Matteo Renzi quando dice che il Presidente della Repubblica non si elegge contro il Parlamento. A condizione, tuttavia, che quest’ultimo rifletta pienamente gli equilibri del “Paese reale”

Si dice che l’elezione del Presidente della Repubblica rappresenti il momento più alto della densità politica. In quel collegio anomalo di 1007 grandi elettori conterà solo la capacità dei singoli protagonisti di giungere ad una soluzione di compromesso e mediazione. Puro gioco tattico, come ha spiegato Matteo Renzi nella sua intervista a Lucia Annunziata. Solo leggermente più sofisticata la posizione di Ezio Mauro: anche lui convinto che quel collegio dovesse rappresentare il necessario diaframma tra la più alta carica dello Stato ed il popolo sovrano.

Durante i lavori dell’Assemblea costituente, l’articolo 83, che prescrive le modalità da seguire per l’elezione del Presidente della Repubblica, fu oggetto di un dibattito approfondito. Si partì dal famoso ordine del giorno dell’on. Perassi in cui si escludeva l’ipotesi di un governo presidenziale o “dittatoriale” non ritenuto “rispondente alle condizioni della società italiana”. Regime parlamentare, quindi, ma con dei correttivi indispensabili per “rendere stabile (sic!) l’azione del governo ed evitare le degenerazioni del parlamentarismo”.

Il Presidente della Repubblica, con la sua presenza, doveva essere uno di questi “correttivi”. Tre le ipotesi all’attenzione dei costituenti: elezione diretta a suffragio universale, elezione da parte dell’Assemblea nazionale, elezione da parte dell’Assemblea nazionale allargata ai rappresentanti delle regioni. Le successive votazioni non furono senza sorprese. A parte la proposta dell’on. Nobile che ipotizzava l’elezione diretta da parte del popolo, ed un correttivo – il Consiglio supremo della Repubblica- che ne limitasse i poteri, il confronto fu serrato. Al punto che un primo testo, elaborato dal relatore Tosato fu respinto, e tutto rimesso alla Commissione dei 75 in seduta plenaria.

Oggetto del contendere, come vedremo tra un attimo, l’ipotesi di elezione popolare diretta, quindi il ruolo dei delegati regionali. Non più i presidenti di regioni, ma tre candidati (uno solo per la Val d’Aosta) eletti in quanto rappresentanti del popolo. Quindi una figura diversa, almeno in teoria, rispetto ai rappresentanti istituzionali. Due le motivazioni addotte: una limitazione del potere che l’eventuale elezione diretta avrebbe garantito, il non rendere il Presidente della Repubblica prigioniero delle due Camere. Insomma: il Presidente della Repubblica doveva essere espressione di una volontà popolare più ampia di quella che si esprimeva nelle Aule parlamentari che gli consentisse di respingere eventuali condizionamenti impropri.

Fecero quindi una grande impressione le parole con le quali il presidente della Commissione per la Costituzione, Meuccio Ruini, presentò la relativa proposta: “Per la elezione del Presidente della Repubblica – disse testualmente – si è adottata la soluzione che la rimette all’Assemblea Nazionale, con la partecipazione — più che altro simbolica, perché il numero ne è lieve — di due membri per ogni Consiglio regionale. Alcuni pochi, ed io sono fra essi, ritenevano che, senza arrivare alla identificazione americana col capo del governo, fosse da ammettere la designazione del Capo dello Stato da parte del popolo, per dargli una maggiore autonomia e per stabilire un potere più durevole e più saldo, in mezzo alle fluttuazioni di forze e di partiti, che non consentono facilmente decise prevalenze e sicurezza di governi”.

Se si volesse seguire la strada indicata dalla Costituzione, prescindere dal volere dell’Assemblea Nazionale sarebbe impossibile. Ha, quindi, ragione Matteo Renzi quando dice che il Presidente della Repubblica non si elegge contro il Parlamento. A condizione, tuttavia, che quest’ultimo rifletta pienamente gli equilibri del “Paese reale”. Cosa che nell’imminenza delle prossime elezioni politiche, nel 2023, e considerati gli smottamenti politici che si sono susseguiti appare quanto mai incerta. Senza considerare infine che almeno il 34,3 per cento dei grandi elettori – quelli che a seguito del taglio dei parlamentari – ha la certezza di non essere rieletto. Voterà pertanto più per convinzione, per semplice convenienza, nella speranza di allungare il più possibile una vacanza dorata.

E allora non sarebbe sbagliato pensare ad una sorta di congelamento degli attuali equilibri. In attesa di consentire al nuovo Parlamento, dopo quella scadenza, l’esercizio di un dovere costituzionale, una volta riconciliato “Paese legale” e “Paese reale”. Quest’espressione, come è noto, stava ad indicare la crescente contraddizione tra un corpo elettorale troppo stretto, qual era quello dell’Italia liberale, e le esigenze più generali del popolo italiano. Ma non è forse quello che si sta verificando oggi, di fronte alla marea montante di un assenteismo che sta uccidendo i partiti, nella forma che abbiamo conosciuto?

Un fine costituzionalista, come Sergio Mattarella, queste cose le conosce bene: di fronte ad un possibile marasma, non potrà far finta di niente. Finora ha resistito di fronte ad ambigue profferte, ma a seguito dallo sviluppo eventuale di una crisi non potrà continuare a dimostrare le stesse granitiche certezze.

(Foto: Assemblea Costituente, archivio storico Camera dei deputati)

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