Berlusconi da mazziere si è trasformato in uno dei giocatori a cui sono andati a vedere il bluff. Non c’è una logica in questa linea di condotta. Il commento di Giuliano Cazzola
Si attribuisce ad Abraham Lincoln una frase divenuta celebre: “È possibile ingannare un individuo per sempre e tutti per una volta; ma nessuno riuscirà mai ad ingannare tutti per sempre’’. Nel corso dell’operazione Quirinale, Silvio Berlusconi è stato in grado di imbrogliare (quasi) tutti per una volta.
Anzi, si direbbe che abbia finito per ingannare anche se stesso. In queste settimane gli sono state dedicate intere pagine di giornale mentre nei talk show sono finite in etere milioni di parole per chiedersi che cosa intendesse davvero fare il Cav avendo messo in circolazione l’ipotesi semiufficiale di una sua candidatura al Colle e comportandosi di conseguenza. Ognuno, nel suo ruolo, ha cercato di intravvedere una strategia accurata e meditata a conferma della lucidità di questo personaggio che – nonostante l’età, la salute, le persecuzioni giudiziarie e il ridotto consenso elettorale – è ancora capace di far ballare la politica italiana come un povero orso ad un fiera di Paese. Per settimane il mondo della politica è rimasto a bocca aperta: molti hanno pensato e temuto che facesse sul serio; alcuni si sono spinti fino a ritenere che sarebbe stato davvero in grado (avvalendosi di una moral suasion al limite della corruzione) di realizzare il suo obiettivo, perché al Cav nulla è precluso; come l’Araba Fenice risorge sempre dalle sue ceneri.
Gli osservatori più distaccati – comunque ancora convinti della lucidità del personaggio – hanno ritenuto che il suo fosse un bluff ben orchestrato che gli avrebbe consentito di imporre agli alleati del centro destra una solidarietà – ancorché forzosa e svogliata – durante le prime votazioni previste col quorum della maggioranza assoluta. Se poi il suo pacchetto di voti si fosse rivelato di una certa consistenza, il Cav si sarebbe trasferito a Villa Grande in attesa di ricevere la resa senza condizioni delle delegazioni dei suoi avversari, pronti a votare chiunque venisse da lui indicato, purché quale contropartita della sua rinuncia.
Peraltro, anche la sciatteria delle consultazioni, le telefonate a destra e a manca fatte di persona (un colpo di genio quella a Sergio Rizzo), l’incarico conferito ad un personaggio inaffidabile come Vittorio Sgarbi, le notizie fatte filtrare di voti in libera uscita, i vertici frequenti con gli stralunati Giorgia Meloni, Matteo Salvini e gli altri comprimari allo scopo di rendere apposta il più possibile sgangherata la ricercata dei 505 voti del destino, davano l’idea che Berlusconi facesse sul serio proprio a causa dell’agire naif che lo ha sempre contraddistinto durante la vita pubblica; in breve, come se il Cav, per essere ancora più credibile, avesse utilizzato la caricatura che gli avversari gli hanno appiccicata addosso, proprio per convincerli di agire davvero sul serio.
In sostanza la domanda era: il Cav vuole o si accontenta di essere il kingmaker? Ovviamente, dopo la rinuncia di ieri la prima ipotesi (la più spericolata) non esiste più. Rimane, forse, in campo la seconda? Ovvero Berlusconi si è messo in condizione di essere determinante nella scelta di un/a candidato/a non divisivo/a? No. Con quel comunicato letto da Licia Ronzulli – in cui gli si riconosceva di avere i voti necessari ma di ritirarsi nell’interesse del Paese affidato (un ulteriore incomprensibile veto) alla permanenza di Draghi a Palazzo Chigi – i resti della figura politica dell’uomo che ha tenuto la ribalta negli ultimi trent’anni “risalgono in disordine e senza speranza le valli che avevano discese con orgogliosa sicurezza”.
Berlusconi ha rinunciato, così, all’esclusiva (che gli sarebbe appartenuta fino alla quarta/quinta votazione) nell’iniziativa del centro destra: ora deve condividere le proposte con gli alleati (Salvini afferma di avere una rosa di nomi), i quali hanno adesso le mani più libere anche di stipulare accordi con le altre forze politiche.
L’ex presidente del Consiglio deve necessariamente negoziare con gli avversari, i quali si sono affrettati a non riconoscere al centro destra un diritto di “primogenitura”, tanto che Enrico Letta ha già fatto sapere che il Pd considererebbe “divisive” le candidature di Elisabetta Casellati (ora seconda carica dello Stato) e di Marcello Pera (ex presidente del Senato) che presenterebbero indubbiamente un rilievo istituzionale importante. Il Cav potrebbe avanzare altre due proposte di grande spessore e di indiscutibile caratura “repubblicana”: Giuliano Amato e Franco Frattini, anche se tra i due ci sarebbe una significativa differenza a favore del Dottor Sottile, per le caratteristiche personali e i ruoli ricoperti. Ma è dubbio che su questi nomi riuscirebbe a portarsi appresso i suoi stessi alleati.
Insomma, Berlusconi da mazziere si è trasformato in uno dei giocatori a cui sono andati a vedere il bluff. Non c’è una logica in questa linea di condotta. Evidentemente, i commentatori, in queste settimane, sono stati presi in inganno sulla residua lucidità del Cavaliere. Come quelle personalità dell’establishment di Washington, che, nel film “Oltre il giardino” (di Hal Ashby 1979) scambiano Chance il giardiniere per un importante economista.