Con il passo indietro per il Colle Silvio Berlusconi si è portato dietro il veto a Mario Draghi. E questo può aprire almeno cinque scenari (nessuno dei quali blinda la legislatura). Il mosaico di Carlo Fusi
Come un albero roso dal di dentro e reso un guscio cavo, così la candidatura di Silvio Berlusconi al Quirinale “nonostante avesse i numeri”, è crollata. L’aritmetica del Cav è surreale, molto meno le conseguenze del suo gesto.
Perché con l’abbandono delle ambizioni, Berlusconi si è tirato appresso il veto contro Mario Draghi e soprattutto le macerie di un’alleanza che fu frutto di un assetto politico ormai in frantumi. Cerchiamo di mettere in fila alcuni punti perché si sta giocando col fuoco dell’elezione del prossimo presidente della Repubblica, architrave istituzionale di un Paese che gode a frantumare la bussola che al contrario dovrebbe guidarla.
1) Il primo elemento è che alla prova dei fatti la tanto ricercata, reclamata e perfino ostentata compattezza dei due schieramenti di centrodestra e centrosinistra è una chimera, un fuoco d’artificio che procura infantile ebrezza e inarrestabile senescenza.
Il centrodestra è lacerato da leadership calanti e nuove che non riescono a sedimentarsi. Non ha un profilo unanime e tantomeno una strategia unificante. Sono tre forze politiche – quattro con l’aggiunta della sfrangiata galassia centrista – ognuna delle quali persegue obiettivi propri e non collimanti con quelli degli altri. Più che sui nomi e sulle candidature, lo scontro sulla durata della legislatura, che nasconde visioni opposte del futuro dell’agenda politica, ne è plateale riprova.
2) Il secondo elemento è che neppure il centrosinistra è indenne dal virus della divaricazione interna. Dopo aver celebrato nozze di governo sulle macerie dell’esecutivo gialloverde senza averle sgombrate, Pd e M5S parlano lingue diverse e hanno obiettivi contrapposti. Anche da questa parte le riunioni si susseguono senza vero costrutto, e non precipitano nello scontro aperto solo perché non c’è l’ingombro di uno come il Cav. Ma cementare un’intesa su un nome condiviso da proporre agli altri è esercizio acrobatico rivelatosi finora nullista. Esattamente come succede nel centrodestra. Non è detto che i prossimi giorni portino ad una schiarita: anzi, la confusione aumenta ed è l’assetto peggiore per scelte fondamentali che riguardano il Colle e palazzo Chigi.
3) Il terzo elemento è forse il più micidiale. Così come per cinque lustri l’Italia si è retta sulla contrapposizione tra berlusconiani e antiberlusconiani dando vita ad un bipolarismo farlocco e patologico, così adesso lo schema viene perpetuato nel braccio di ferro draghiani vs antidraghiani, in un duello perverso che mette colpevolmente sullo sfondo l’interesse generale a favore di “particulari” come fossimo ancora all’epoca dei guelfi e dei ghibellini. Schieramenti per di più a loro volta divisi al proprio interno.
4) Il quarto elemento è il precipitato dei primi tre. Ossia che centrodestra e centrosinistra, per come sono articolati e per come si muovono, sono entrambi unfit per la governabilità in solitaria. Lo pseudo miracolo delle larghe nonché strambe intese che ha sorretto l’azione di Draghi, pur affatto esente da limiti e manchevolezze, è l’unico equilibrio in grado di reggere la doppia sfida dell’emergenza vaccinale e di quella economica racchiusa nel Pnrr. Ne consegue che si tratta di un patrimonio da salvaguardare a tutti i costi, altrimenti il Paese va alla deriva.
5) Il quinto elemento concerne il traguardo da raggiungere. Se la maggioranza attuale è il migliore e anzi l’unico perimetro politico entro cui delineare le scelte necessarie all’Italia, giocoforza è al suo interno che le possibili soluzioni vanno trovate. Le quali, nonostante le giravolte, le ripicche, gli sgambetti, le senili riottosità e le acerbe leadership, non possono che avere due soli sbocchi: o il bis di Mattarella o il trasloco di SuperMario al Quirinale.
Il primo è precluso dalla contrarietà di chi dovrebbe restare al suo posto e non sembra una posizione superabile salvo colpi di scena che tuttavia riproporrebbero il collasso politico che portò alla rielezione di Giorgio Napolitano. Il secondo – ed è una torsione complicatissima da attuare – obbliga a un’intesa sul governo da allestire una volta privato del suo Timoniere che ha fatto anche da collante.
Fuori da questi argini il pericolo è che le larghe intese saltino e con esse il recupero di credibilità e stabilità faticosamente guadagnate all’ombra dell’attuale presidente del Consiglio. Una ferita che il voto anticipato non suturerebbe ma al contrario rischierebbe di mandare in suppurazione.