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È Stato l’intelligence. Intervista ad Adolfo Urso (Copasir)

Adolfo Urso, presidente del Copasir, spiega a Formiche.net perché non c’è incompatibilità tra guida dell’intelligence e guida del Paese. Dopo le polemiche all’ombra del Quirinale è tempo di chiarire una volta per tutte un pregiudizio. Ecco da dove partire

Intelligence e servizio pubblico sono due facce della stessa medaglia? La domanda è tornata di grande attualità nel corso delle trattative per il Quirinale. Nel totonomi per il Colle che ha dominato le cronache di queste settimane sono finiti anche esponenti di spicco del comparto italiano di oggi e di ieri. Qualcuno ritiene che la possibilità stessa per un vertice degli 007 di aspirare alla guida del governo o dello Stato sia incompatibile con una democrazia occidentale. Non è di questo avviso Adolfo Urso, senatore di Fratelli d’Italia alla guida del Copasir, il comitato parlamentare che vigila sulle politiche di sicurezza e di intelligence del Paese.

Presidente Urso, la partita per il Colle è terminata ma rimangono gli strascichi di alcune polemiche. Fra questi, il dibattito sull’opportunità che un dirigente dell’intelligence italiana possa aspirare alla guida del governo o dello Stato. Cosa ne pensa?

Temo che questa polemica sia frutto di una cultura che guarda ancora all’apparato dello Stato con sospetto. In altri Paesi democratici e occidentali, penso al Regno Unito o agli Stati Uniti, per non parlare di Israele, nessuno si scandalizza se un vertice dell’intelligence aspira a cariche pubbliche, anzi. Nel mondo anglosassone c’è una consolidata cultura dell’intelligence che vede nel servizio per la sicurezza un onore, non il contrario.

Parliamo ovviamente di un caso specifico: il nome della direttrice del Dis Elisabetta Belloni, e in seconda battuta quello del suo predecessore Giampiero Massolo, entrambi presi in considerazione per il Colle nelle trattative dei giorni scorsi.

Due persone con un cursus istituzionale che parla da sé. Ambasciatori di lungo corso, già segretari generali della Farnesina, negli anni hanno dimostrato visione e capacità strategiche nonché una gestione imparziale del servizio pubblico. Peraltro della Belloni, la cui nomina al Dis è recentissima, si era già parlato all’inizio della legislatura come presidente del Consiglio e anche in questa occasione come possibile sostituta di Draghi. Insomma, persona di grandissima qualità.

C’è una questione di fondo, fanno notare in molti. Può in un Paese occidentale il capo dei Servizi segreti prendere le redini dello Stato o del governo?

È già successo altrove, senza scandali o polemiche. Un caso per tutti: George Bush padre. Prima di diventare presidente degli Stati Uniti è stato direttore della Cia. Un’agenzia che a differenza del Dis – che ha un ruolo di coordinamento del comparto intelligence – ha una funzione davvero operativa. Senza contare che il presidente americano ha poteri più estesi del nostro Capo dello Stato ed è il comandante in capo. L’esperienza di Bush nell’intelligence ha contribuito a farne uno dei più previdenti e brillanti interpreti della fine della Guerra Fredda e anche per questo determinante nella caduta dell’Urss.

Enrico Borghi, responsabile sicurezza del Pd e componente di lungo corso del Copasir, ha annunciato una proposta di legge del partito per stabilire un’incompatibilità tra vertici dei Servizi e vertici dello Stato, persino di ineleggibilità, anche per evitare le cosiddette “porte girevoli”, citando proprio la possibilità che un ex direttore della intelligence sia eletto parlamentare e presidente del Copasir.

Borghi è una persona di grande valore con il quale è sempre utile confrontarsi. La questione merita sicuramente una riflessione che non può certo essere limitata alla intelligence; tanto più significativa quella che riguarda i magistrati, annosa e irrisolta. Dicevo prima di Bush padre, direttore Cia e poi straordinario presidente Usa. Ma potremmo portare altri casi a noi più vicini.

Ad esempio?

Il Prefetto De Gennaro, capo della polizia, poi direttore del Dis e quindi sottosegretario alla intelligence, un cursus straordinario che l’ha portato a diventare anche presidente di Finmeccanica. O lo stesso Gabrielli, direttore del Sisde e poi dell’Aisi, cioè di una agenzia operativa, poi prefetto di Roma, capo della polizia, ed ora sottosegretario alla intelligence e alla cybersicurezza. Si tratta di “porte girevoli” o di grandi qualità sviluppate anche sulla base di esperienze diverse tanto più utili nel contesto odierno? Nel passato peraltro vi sono stati parlamentari che erano stati direttori della intelligence senza che nessuno sollevasse problemi di incompatibilità o ineleggibilità così come non sussistono verso gli alti gradi delle Forze Armate. Eviterei che la questione sia affrontata sulla scia delle polemiche del Quirinale, peraltro del tutto legittime.

Un altro sospetto agitato nei giorni scorsi riguarda la possibilità che un capo dei Servizi, una volta eletto al Colle o a Palazzo Chigi, possa tenere sotto scacco la politica grazie alle informazioni di cui è in possesso. È un pregiudizio o c’è un fondo di verità?

È un pregiudizio frutto di suggestioni e le spiego perché con un esempio. Nella storia repubblicana l’Italia ha avuto diversi presidenti della Repubblica che erano stati ministri dell’Interno. Segni, Cossiga, Scalfaro, Napolitano. Anni fa chi guidava il Viminale aveva un accesso e un controllo del comparto senza paragoni. Eppure nessuno ha fatto uso delle informazioni raccolte abusando del suo potere. Era una sorta di prova del nove: spesso la scelta ricadeva su personalità che aveva svolto tale incarico proprio perché essa aveva dimostrato assoluta imparzialità e senso dello Stato nell’assolvere ai suoi delicati compiti. Comunque ricordo a me stesso che il vero “capo” dei servizi è il presidente del Consiglio che ha peraltro poteri che non può nemmeno delegare. Per questo esiste il Copasir affidato per legge alla opposizione.

Insomma, per lei è una polemica inutile?

Ho sempre molto rispetto delle idee altrui anche perché spesso suscitano opportune riflessioni. Se oggi autorevoli leader politici hanno pensato alla possibilità che anche direttori del Dis potessero assumere importanti ruoli istituzionali vuol dire che si è fatto un ottimo lavoro in questi anni. Sino a poco tempo fa si parlava di “Servizi deviati”, termine peraltro in uso solo in Italia. Ora si ricordano invece gli eroi della nostra intelligence, non solo Calipari. Peraltro, nell’incarico nei ruoli di coordinamento e di controllo, prima al Cesis e poi al Dis, importante è stata proprio l’esperienza dei diplomatici oltre che dei prefetti. Le faccio un altro esempio?

Prego.

Francesco Paolo Fulci, compianto ambasciatore italiano scomparso di recente dotato di una visione strategica fuori dal comune, prima di aver salvato l’Italia dalla riforma Onu, è stato alla guida del Cesis (Comitato esecutivo per i servizi di informazione e di sicurezza, ndr).

A cosa si deve questa diffidenza verso il comparto?

Oltre alle ragioni storiche accennate, che risalgono alla “guerra fredda” e alla contrapposizione ideologica che divideva il Paese, credo non si abbia ancora piena consapevolezza della nuova fase storica che stiamo attraversando. La globalizzazione ha fatto dell’interdipendenza una necessità, l’intelligence non è una scatola chiusa né può essere considerata aliena al servizio pubblico. Ci sono Paesi democratici che hanno fatto ad esempio dell’intelligence economica una bussola e che da oltre dieci anni hanno sviluppato una difesa cybernetica. Peraltro, abbiamo esempi eloquenti dal nostro passato.

A chi pensa?

Missionari e mercanti erano spesso anche “agenti segreti”, carpirono all’impero cinese il grande segreto del baco di seta custodito per millenni, la cosa più preziosa che esisteva allora. Ora la grande competizione è di nuova quella sulla superiorità tecnologica e sul controllo delle “terre rare” e di poche altre materie prime fondamentali per il digitale e l’economia green. Servono qualità diverse rispetto al passato non solo nella intelligence ma anche nello Stato e in Parlamento. E tanta visione strategica.

C’è un’altra questione che stiamo lasciando fuori. Affidarsi ai tecnici non è un po’ un commissariamento della politica?

Questa divisione tra tecnici e politici non esiste più. L’esperienza del grande Carlo Azeglio Ciampi parla da sola, anticipatrice di un’epoca. Un “banchiere” che ha riconsacrato la Patria! Ma ci sono esempi di questi giorni, anche in direzione contraria, a dimostrazione che il diaframma non esiste più. Due politici, Franco Frattini e Giuliano Amato, sono diventati rispettivamente presidente del Consiglio di Stato e della Corte Costituzionale proprio mentre si parlava di loro anche come Presidente della Repubblica: quel che conta è la qualità delle persone e sempre più la loro capacità di tenere conto della interdipendenza dei fattori. Penso ancora a Emmanuel Macron. Quando è stato eletto tutti lo consideravano un tecnico, costruito come Presidente dalla tecnocrazia. Oggi possiamo dire la stessa cosa?

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