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Perché la Cina “cambia nome” a Taiwan

Taiwan è una questione da risolvere per Pechino. La terminologia usata dal Partito/Stato è un elemento decisivo per capire come la Cina intende affrontare una delle sue questioni più spinose

I funzionari del Partito Comunista cinese che parlano di Taiwan stanno iniziando a usare una nuova terminologia che oltrepassa la “One China policy” — ossia la negazione di autonomia della Repubblica di Cina definendola parte della Repubblica popolare cinese — e descrive la politica nei confronti dell’isola come “la strategia generale del Partito per risolvere la questione di Taiwan nella Nuova Era”.

Questi cambiamenti di forma si potrebbero portare dietro aspetti di sostanza: per le potenze certi usi terminologici danno il significato dell’approccio, della postura e della proiezione riguardo una determinata “questione”. La Cina è un Paese in cui la simbologia ha un valore enorme; il Partito/Stato usa i simboli collegati alle parole per descriversi oltre le dichiarazioni. La redutio a questione serve anche a minimizzare il ruolo di Taiwan — e di farlo a uso interno e internazionale.

Il cambiamento è stato notato dal novembre scorso, dopo il Sesto Plenum del Partito, mentre in questi giorni il membro del Comitato permanente del Politburo Wang Yang ha usato la definizione durante la annuale Taiwan Work Conference. In particolare, nel suo discorso non ha fatto riferimento al principio della Cina unica — così che a Taiwan non viene nemmeno dato lo status di Cina — mentre ha sottolineato i rischi e le sfide nella situazione nello stretto che separa l’isola dal mainland tra i fattori delicati nella “strategia generale del Partito per risolvere la questione di Taiwan nella Nuova Era”.

La Nuova Era è la fase politica attuale in cui il segretario del Partito Comunista, il capo dello Stato Xi Jinping, sta guidando la Cina: un percorso tra presente e futuro che è stato messo nero su bianco nel documento uscito dal plenum nel novembre 2021, in cui Pechino ha interpretato e riscritto i principali fatti storici della Cina degli ultimi cento anni. La “risoluzione sulla storia”, così è  chiamato il documento, è soltanto la terza approvata dalla fondazione del Partito comunista cinese: prima del leader attuale ne erano stati protagonisti Mao Zedong, padre della rivoluzione cinese, e Deng Xiaoping, colui che aprì la Cina all’economia di mercato e la trasformò in una potenza economica.

La risoluzione sulla storia contestualizza l’importanza della nuova terminologia usata per Taiwan, che per il Partito/Stato è un territorio ribelle da annettere al controllo di Pechino. Se la necessità è simbolica, cruciale per la narrazione di potenza interna ed esterna, c’è anche una componente pratica: Taiwan è un Paese tecnologicamente molto sviluppato, con importanti capacità industriali. Per esempio, in questi giorni la produttrice di semiconduttori TSMC ha superato la cinese Tencent come azienda più capitalizzata dell’Asia. Queste realtà produttive possono essere molto importanti per la Cina della nuova era di Xi, che punta molto sull’acquisizione di vantaggio tecnologico.

Economia e terminologia interessano Taiwan e Cina anche sulla diatriba che coinvolge la Lituania e l’Unione europea. Vilnius è sotto il fuoco cinese per aver concesso l’apertura di un ufficio di rappresentanza diplomatica che porta il nome di Taiwan — e non indica Taipei come da prassi accettata dai cinesi. Pechino ha imposto sanzioni pesantissime, mettendo per la prima volta in campo misure di carattere secondario come quelle americane. Un approccio che supera l’idea che il decoupling dal mercato cinese possa liberare un’azienda, o un Paese, dalla coercizione di Pechino. “Misure discriminatorie” le ha definite la Ue, che le ha denunciate al Wto.  La reazione cinese è stata dura perché la Cina teme che quello lituano sia un precedente, per esempio la Slovenia potrebbe fare altrettanto. Questo sgancerebbe dall’orbita cinese un altro Paese dell’Europa orientale e creerebbe un gancio diplomatico internazionale in più a Taipei.

Le parole hanno un peso, e quando si tratta di questioni strategiche dalle dinamiche profonde (e ampie) la scelta dei termini — il wording — è altamente significativo. In questi giorni per esempio la narrazione strategica del Partito/Stato ha fatto diffondere messaggi propagandistici sull’Ucraina, usando la lingua inglese e scegliendo sottolineature come l’uso della parola “disinformation” per accusare Usa e Ue (e Nato) di alterare i fatti — lo stesso fa la Russia.

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