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Che fine facciamo da vecchi? La lezione di Umberto D. che compie 70 anni

“Umberto D”, di Vittorio De Sica, uno dei capolavori del neorealismo cinematografico, compie 70 anni. Un film che dovrebbe farci riflettere sulle attuali condizioni precarie degli anziani. La regia del pedinamento di De Sica e Zavattini raggiungeva il suo apice. L’apprezzamento di Umberto Eco


Come viviamo quando entriamo in quella parte della vita che è un’autentica zona grigia, forse già dentro una inquietante ombra, ossia la terza età? Che fine facciamo quando siamo vecchi, con una pensione misera o benestanti, con i primi acciacchi o malandati? Il cinema del Novecento, dal periodo “classico” a fine millennio, ce lo ha raccontato con alcuni capolavori, dall’Europa agli Stati Uniti al Giappone. Insegnanti (L’angelo azzurro, 1930, di Josef Von Sternberg) o artisti (Luci della ribalta, 1953, di Charlie Chaplin), operai (Viaggio a Tokyo, 1953, Yasoujiro Ozu), impiegati (Una storia vera, 1999, David Lynch) o piccolo borghesi (Film blu, 1992, Krzysztof Kieślowski) quando, avanti con gli anni, rimaniamo soli, la vita può diventare buia prima del trapasso.

Il cinema italiano, quello neorealistico, entrava nel tema con un esemplare racconto che sarebbe diventato un capolavoro: Umberto D. (1952), di Vittorio De Sica su soggetto di Cesare Zavattini. L’incipit del film è di una straordinaria attualità. Un nutrito gruppo di educati anziani, con giacca, camicia e cravatta, cappello, magari usurati, ma puliti, educatamente stanno manifestando in piazza. La loro pensione è insufficiente per vivere. Il gruppo viene disperso dalla polizia poiché gli organizzatori non hanno chiesto il permesso per la manifestazione. Tra questi anziani, ecco il nostro protagonista, Umberto (il delicato Carlo Battisti), con il suo inseparabile cagnolino Flaik.

Ex funzionario del ministero, educato e con l’uso di un italiano standard (Battisti era professore di filologia), Umberto sta per esser sfrattato, a fine mese, dalla volgare padrona di casa, dalla sua umile e ordinata camera, poiché ha degli arretrati di fitto da saldare. La proprietaria, la parvenu signora Antonia (la superbamente sgraziata Lina Gennari) potrebbe concedere più tempo, ma vuole liberarsi del vecchio per affittare la camera, ad ore, alle coppie di amanti clandestini.

Umberto prova a chiedere aiuto a vecchi colleghi che incontra per strada, ma ognuno va di fretta. Lo ascoltano distrattamente. Privi della minima compassione. Tenta anche l’elemosina, alle spalle del Pantheon (con Flaik, che tiene con la bocca il suo cappello ritto sulle zampe posteriori: tale immagine divenne popolare), però, subito dopo, si vergogna e desiste.

Pensa di farla finita gettandosi dalla finestra. Poi, guardando Flaik che dorme innocentemente sul letto, ci ripensa: non può lasciarlo solo. Flaik è come un figlio. L’unico che gli vuole bene, oltre alla innocente servetta Maria (Maria Pia Casilio: una parte acqua e sapone), alle dipendenze della antipatica e disonesta signora Antonia.

Sul finale Umberto, sempre più disperato, ma lucido, va sui binari con Flaik in braccio. All’avvicinarsi del direttissimo, il cagnolino, “capendo” abbaia spaventato e fugge dalla stretta delle sue braccia. Umberto torna in sé. Trotterella dietro a Flaik ormai terrorizzato, il quale scappa appena egli si avvicina. Ora il cane teme l’uomo. Questi, pian piano, chiamandolo ripetutamente, “Flaik! Flaik!”, lo riguadagna alla sua fiducia. In uno spoglio giardino pubblico, l’uomo e il cane giocando, si allontanano sempre più, in campo lungo. Vanno verso la vita. Come nel finale di Tempi moderni di Chaplin. Una frotta di ragazzi e bambini urlanti, irrompendo in primo piano, corre confusamente dietro a un pallone. Fine. De Sica, pare ribadire che i “bambini ci guardano”, insieme ai cani.

Quello che ci colpisce rivedendo Umberto D. è la sorprendente attualità sociologica. I vecchi del Secondo dopoguerra, abbandonati, tra mense popolari ed elemosina, sono gli stessi anziani del terzo millennio, quelli che vediamo di notte dormire coperti da cartoni intorno alle stazioni ferroviarie, o nelle piazze. Autoctoni o immigrati che siano, in Italia manca ancora una seria e articolata politica sociale che si occupi della terza età.

Dal punto di vista stilistico De Sica portava a compimento la teoria del “pedinamento” zavattiniano, inaugurata con Ladri di biciclette (1948). Ossia, raccontare una semplice storia seguendo un personaggio nella sua vita quotidiana, “nel suo camminare per la città spinto da problemi personali o sociali”. Ciò comportava un ritmo narrativo variegato: alcune azioni più sostenute altre piuttosto “lente”, come, in questo caso, quelle “introspettive”. Si veda Marietta in cucina, da sola, pensierosa, mentre compie gesti pausati o siede per interminabili secondi: sta pensando a come affrontare una imprevista gravidanza senza un marito. Lo spettatore di oggi, cresciuto con un montaggio da videoclip, troverebbe il racconto troppo pausato, ma deve riconquistare i tempi “lunghi” della riflessione filmica dei classici. Del resto Umberto Eco scrisse: “Sono stato un’ora e mezzo con un uomo solo e il suo cane. Non mi sono sentito solo”.

Plasticamente riuscito l’uso della macchina da presa, spesso posta ad altezza del pavimento (è la lezione di Quarto potere, 1941, di Orson Welles, distribuito in Italia nel novembre del 1948). Si vedano, ad esempio, le due scene nella modesta cucina dove Marietta accoglie Umberto nei momenti di sconforto. È il punto di vista di Flaik anche quando non è presente. Forse De Sica vuole dirci qualcosa sul versante simbolico: vedere gli accadimenti dal basso, ovverosia osservare il mondo da una posizione di inferiorità psicologica e sociale. Umberto ha lavorato per anni come funzionario, poi lo Stato lo ha liquidato con un assegno mensile inadeguato per una vita dignitosa. I giovani di oggi saranno gli Umberto D. di domani?

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