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Accordo? Un tubo! Zuffa al Congresso sul Nord Stream 2

Nel discorso alla nazione sulla crisi ucraina il presidente americano Joe Biden minaccia Mosca: in caso di invasione addio Nord Stream 2. Ma sul gasdotto di Gazprom è in corso una vera battaglia al Congresso. Che vede schierate società di lobbying e miliardi di dollari

Il vero convitato di pietra delle trattative tra Russia e Occidente per la de-escalation in Ucraina è un gasdotto lungo 1200 chilometri. Lo ha chiarito senza girarci intorno il presidente americano Joe Biden parlando alla nazione martedì sera: se la Russia invaderà l’Ucraina, il Nord Stream II, il condotto della russa Gazprom che parte dal Mar Baltico e arriva in Germania, “will not happen”, “non esisterà”.

Costruito a partire dal 2015 e completato nello scorso autunno il gasdotto, in grado di trasportare in Europa 55 miliardi di metri cubi di gas ogni anno, non è ancora entrato in funzione. Per gli Stati Uniti è un “progetto geopolitico”, perché pensato per tagliare fuori dalle rotte del gas russo l’Ucraina e per aumentare la dipendenza dei Paesi europei dai rubinetti di Mosca. Per l’Europa alle prese con la più grave crisi energetica del decennio, e in particolare per la Germania, è un oggetto molto ingombrante e causa di non pochi imbarazzi.

Sul destino del Nord Stream 2 pende un nuovo pacchetto di sanzioni americane in grado, se approvate, di rendere la vita difficile alle aziende europee impegnate nel progetto. Se però la risolutezza della Casa Bianca è granitica, lo stesso non si può dire del Congresso. Mentre Biden minacciava Vladimir Putin con “potenti sanzioni” in risposta a una possibile invasione in Ucraina, repubblicani e democratici si davano ancora una volta battaglia a Capitol Hill.

Martedì mattina i parlamentari della Commissione Esteri non hanno potuto far altro che registrare l’ennesimo stallo. I Repubblicani tifano per il pugno duro, i Democratici, d’accordo con il presidente, cercano di prendere tempo. Per dirla con il repubblicano Marco Rubio, “siamo sulla stessa pagina, ma non sullo stesso paragrafo”.

Sulla Russia sta andando in scena un capovolgimento di ruoli. L’Elefantino, reduce da quattro anni di leadership di Donald Trump, un presidente messo sotto impeachment (ma uscito illeso) con l’accusa di aver tramato con il governo russo, è il più deciso a presentare a Mosca un conto salato.

Il battibecco d’aula è iniziato a gennaio, quando il Senatore repubblicano Robert Menendez ha presentato “la madre di tutte le sanzioni”: un pacchetto di misure punitive senza precedenti contro banche, asset e personalità vicino al Cremlino. Un passo più lungo della gamba per i dem, che infatti hanno opposto resistenza, complice lo scetticismo di una parte dei repubblicani, a partire dal leader Mitch McConnell.

Ieri Jim Risch, senatore repubblicano di peso in Commissione esteri, è tornato all’attacco con trentuno colleghi di partito calando sul tavolo il “Nyet act” (“no” in russo). Un decreto che prevede l’imposizione di dure sanzioni contro il Nord Stream 2 in caso di un’aggressione russa contro Kiev ma soprattutto l’impossibilità per Biden di usare il “waiver”, cioè di sospendere le misure in un secondo momento, come ha già fatto nei mesi scorsi per aprire uno spazio negoziale con i russi.

Nel pacchetto però c’è molto di più, come nuovi aiuti militari all’Ucraina e una serie di sanzioni “preventive”, dunque da introdurre a prescindere da un’invasione. Irricevibile per i democratici, che d’intesa con Biden stanno arginando le spinte dei “falchi” al Senato per non dare a Mosca il pretesto di un’accelerazione della crisi ucraina.

Dietro i duellanti c’è un’altra battaglia che non si combatte nelle aule, bensì nei corridoi del Congresso. Quella che vede schierate le società di lobbying assoldate da Russia e Ucraina per salvare o affossare il Nord Stream 2.

Secondo l’organizzazione no-profit OpenSecrets dal 2020 sono stati versati 8.4 miliardi di dollari nelle tasche dei lobbisti a Washington DC che rappresentano i clienti russi coinvolti nel gasdotto di Gazprom. Solo lo scorso anno, riporta un’analisi del think tank Quincy Institute for Responsible Statecraft, i lobbisti ucraini hanno incassato 2 miliardi per seguire il dossier.

Una battaglia dove la trasparenza non sempre è di casa, nota la rivista Mother Jones. Da una parte e dall’altra infatti i lobbisti in campo negano di operare su indicazione dei rispettivi governi e si sono dunque rifiutati di iscriversi al Dipartimento di Giustizia come stabilito dal Fara (Foreign agents registration act), una legge che prevede stretti controlli sull’attività di lobbying a Capitol Hill e l’obbligo di rendere pubblici tutti gli incontri con i congressmen e senatori.



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