L’attore e regista Kenneth Branagh con «Belfast» (2021), un racconto lirico e senza cedimenti sentimentali, fa conoscere ai giovani del terzo millennio, tramite una esemplare famiglia pacifista, il conflitto tra irlandesi cattolici e protestanti, che insanguinò l’isola per circa venticinque anni. Un film, purtroppo attuale, che esce nelle sale quando l’Europa è di nuovo in guerra. La recensione di Eusebio Ciccotti.
Raccontare il conflitto tra protestanti e cattolici in Irlanda del Nord, in una della città più calde degli anni Sessanta e Settanta, Belfast, non è semplice dal punto di vista estetico. O si sceglie la soluzione docu-drammatica (come l’esemplare Bloody Sunday, 2002, James Nesbitt), che ricostruisce la strage di Derry del 31 gennaio 1972, quando l’esercito inglese regolare (paracadutisti), aprì il fuoco su inermi dimostranti cattolici uccidendo quattordici persone, o si sceglie un racconto con momenti di lirismo e umorismo, intrecciati parallelamente, e delicatamente, a un dramma storico ed esistenziale, sempre pronto a fermarsi prima della tragedia.
Come nel calibrato Belfast (2021) di Kennet Branagh. Qui ci viene raccontata la serena vita di un pacifico quartiere di Belfast, in realtà è una strada delimitata ai lati dalle tipiche case popolari a schiera, abitata da cattolici e protestanti, interrotta improvvisamente, brutalmente, dai primi attentati dell’anno 1969.
Eccoci in un pomeriggio di agosto, mentre le madri preparano la cena e i ragazzi si attardano a giocare in strada. Chi a calcio, chi ai cavalieri con spade, pezzi di legno, e coperchi dei bidoni della spazzatura per scudi. Irrompono persone arrabbiate, i bambini non capiscono chi siano, lanciano bottiglie incendiarie, distruggono le vetrine di negozi; furti e saccheggi. Sono alcuni protestanti che attaccano case e negozi di cattolici. È una vendetta, dicono. Poi capiremo che, in quel caso, in quel quartiere, il giovane capo protestante è un delinquente pronto ad ideologizzare la sua innata violenza e invidia verso il prossimo.
La felice scelta di Branagh è quella di farci percepire la perduta tranquillità attraverso il destino di una giovane famiglia, padre madre e due figli, uno adolescente e l’altro bambino. Lo spettatore vede il nascere del conflitto tra cattolici e protestanti con gli occhi innocenti del piccolo Buddy che non capisce il significato di quella violenza, scambiata per gioco, e viene persino usato, da una bambina più grande, nel saccheggio di una drogheria devastata dai dimostranti.
Noi siamo Buddy che frequenta serenamente la scuola del quartiere con altri bambini, cattolici e protestanti. Buddy che, educatamente, si innamora della bella compagna di classe, la biondina cattolica Catherine; per la quale chiede alla nonna, sua paziente confidente, come parlarle visto che quando “esce da scuola lei va subito a casa”; alla quale, un giorno, dopo averla attesa fuori dalla scuola, le regala un mazzo di fiori. Siamo Buddy, quando davanti alla proposta del padre di lasciare Belfast, si oppone quasi piangendo, facendo notare ai genitori che “di dà dal mare parlano strano” (inglese) e, soprattutto, che non intende abbandonare Belfast per via di Catherine.
Belfast racconta i prodromi di un lungo conflitto che pochi ricordano, e che i Millennials e la generazione Z non conoscono. Nel 1972, con le vittime di Derry, si aprì una lunga guerra intestina, con attentati e scontri aperti, tra IRA ed esercito inglese. Per circa mezzo secolo, quasi cinquecento persone, tutte con lo stesso passaporto, persero la vita. Belfast giunge sugli schermi proprio nel momento più triste per noi europei. Il film ci ricorda di una guerra nel cuore del nord Europa tra cattolici e protestanti, ossia tra cristiani, nel momento in cui in Ucraina si combatte una nuova guerra. Ancora tra cristiani, addirittura della medesima confessione ortodossa.
Branagh cesella un delicato racconto con al centro una famiglia posta davanti al dilemma se restare a Belfast o andar via. Soprattutto dopo che il padre e la madre, protestanti non violenti, si rifiutano di collaborare con quei protestanti estremisti, animati da un odio cieco. Il padre dirà, sul finale, prima di partire, a Buddy, dispiaciuto di lasciare Catherine: “Buddy, se ti vuole bene quando tornerai starete insieme. Anche se tu sei protestante e lei è cattolica. Vedi, se la sua famiglia ci accetta noi saremo felici di andare a visitarla. (Pausa). Vale a dire che dovremo abituarci a confessarci!”.
Branagh non prende posizione, racconta una piccola ma esemplare storia di un quartiere, denunciando la violenza, da qualunque parte provenga. La regia è affidata sovente a lunghi e avvolgenti piano-sequenza (vedi quello incipitario: la camera carrella zigzagando tra i ragazzi colti nei giochi; le mamme che li chiamano, per la cena, dalle finestre; i padri che rientrano dal lavoro; i negozianti che si avviano alla chiusura; una catena armonica di suoni e felici echi, spezzata improvvisamente dalle esplosioni delle molotov, dalle vetrine dei negozi in frantumi), come a conferire al film un carattere di documento oggettivo (in tal senso va letto il ricorso al bianco/nero). Branagh intende proiettare senza indugio lo spettatore dentro questa vicenda familiare e universale ad un tempo, come in un film di Vittori De Sica (Miracolo a Milano), Roberto Rossellini (Germania anno zero) o Luchino Visconti (Bellissima).
Gli omaggi a film capolavori e commerciali (Mezzogiorno di fuoco,1950, di Fred Zinnemann; Un milione di anni A.C.,1966, di Don Chaffey; Mary Poppins, 1964, di Robert Stevenson) sono quelli che hanno caratterizzato gli anni di Branagh adolescente. La citazione di Mezzogiorno di fuoco, con il sonoro della famosa ballata, nel momento in cui il padre pacifista è da solo contro i facinorosi attentatori, è superbamente incastonata.
Caitriona Balfe (la madre), Jamie Dornan (il padre), Jude Hill (Buddy), Judi Dench (la nonna), sono nel solco di una recitazione misurata e mai prevedibile, in cui anche un sorriso, uno sguardo d’amore, è naturale e non finto; e quando arriva la battuta umoristica colpisce perché priva di enfasi. Impeccabile la recitazione nelle scene collettive, come quando madre e padre ballano alla festa, con la leggerezza di due ventenni, sempre innamorati. E Buddy li guarda felice. Qui percepiamo la bravura dell’attore Branagh quando dirige. Belfast è forse uno dei migliori film di sempre dedicati alla famiglia, dal nipote ai nonni.
Quello che ci convince meno è il poco espressivo bianco e nero, ormai codice convenzionale, adoperato, quasi obbligatoriamente, quando si parla del passato. Gli anni Sessanta e Settanta, invece, sono gli anni della vita ancor più colorata che nei decenni precedenti. Attraverso l’esplosione del pop design, l’uso degli utensili di plastica chiamati ad abbellire i modesti interni popolari, le automobili oltre la vernice nera degli anni Cinquanta, i giocattoli camaleontici, gli abiti pastello e le minigonne sgargianti. Sono gli anni, nel cinema inglese a colori, di Poor cow (1967) di Ken Loach e If (1969) di Lindsay Anderson. Dei western di Sergio Leone. Della ricerca coloristica di Michelangelo Antonioni in Deserto rosso. Della serie di 007. Storie che raccontavano la vita, come direbbe Vittorio Storaro, anche attraverso il colore. E qui Branagh doveva osare di più.