Il governo, nel giro di una stagione, ha già profuso ristori per parecchi miliardi di euro; e dovrà stanziarne ancora. Ma il governo non dovrebbe solo essere “ufficiale pagatore’”. Questo sarebbe il momento per un blitz nei confronti di taluni settori dell’opinione pubblica che hanno fatto del No la loro bandiera L’analisi di Giuliano Cazzola
Il caro-bollette è l’ultima metafora (in ordine di tempo perché ne seguiranno altre) di un Paese che non vuole uscire dall’età dell’innocenza. Da noi i primi a scagliarsi contro l’evasione (un fenomeno di cui si ingigantisce ad occhio l’ammontare) sono gli evasori. Infatti, come ricorda sempre Alberto Brambilla, sintetizzando per scaglioni, lo 0,10% dei contribuenti paga il 6,02% dell’Irpef; lo 0,24% paga il 9,03%; l’1,21% paga il 19,56%; il 4,63% paga il 37,22%; il 13,22% paga il 58,86%; il 42,94% paga l’88,55%.
Per contro il 43,62% dei contribuenti paga solo il 2,31% dell’intera Irpef. Così l’Italia – sta scritto nel IX Rapporto di itinerari previdenziali – sembrerebbe “un Paese di poveri: se solo 31,161 milioni di cittadini su 59,817 milioni di abitanti presentano per il 2019 una dichiarazione dei redditi positiva, significa che il 52% degli italiani non ha redditi e quindi vive a carico di qualcuno. Eppure nei bar, nei supermercati e nei talk show (dove si usano gli stessi argomenti dei bar e dei supermercati) la vulgata comune è la seguente: se tutti pagassero le tasse non ci sarebbero pensioni e retribuzioni da fame’ (in un Paese in cui è diffuso il sovrappeso).
Tornando al Bel Paese i più accaniti ambientalisti hanno un paio di suv in garage; quelli che nutrono i cinghiali con la loro immondizia (che non viene raccolta perché gli addetti sostengono che si tratti di un lavoro usurante) non vogliono sentir parlare di termovalorizzatori. Coloro che cercano un lavoro rifiutano le offerte disponibili, quelli che un’occupazione ce l’hanno – magari a tempo indeterminato – si dimettono perché – diagnosticano gli psichiatri e ammoniscono i sociologi – la pandemia li ha indotti a comprendere che di vita ce ne è una sola che non la si deve sprecare lavorando.
E se nessun pasto è gratis, a pagarlo deve pensarci qualcun altro. A pensarci bene che cosa chiedono le famiglie e le aziende nel momento in cui nel giro di qualche mese si accorgono di non poter affrontare il costo delle bollette, a cui si fa caso perché è un conto spietato che arriva tutto in una volta, ma lo stillicidio degli incrementi dei prezzi è tanto diffuso da essere ritenuto (un aggettivo che piace alle anime belle) di portata universale? Pretendono che sia lo Stato a farsene a carico.
In effetti, nell’immediato, non c’è altro da fare; e il governo, nel giro di una stagione, ha già profuso ristori per parecchi miliardi di euro; e dovrà stanziarne ancora. Ma il governo non dovrebbe solo essere “ufficiale pagatore’”. Questo sarebbe il momento per un blitz nei confronti di taluni settori dell’opinione pubblica che hanno fatto del No la loro bandiera. Non siamo così visionari da immaginare che si possa prendere a pretesto il caro-bollette per uscire dalla psicosi del nucleare: la Francia ha anch’essa un problema di rincari dell’energia, ma con le sue centrali è autonoma per il 60% del fabbisogno nazionale, mentre noi ne copriamo il 73% con le importazioni in prevalenza di gas dalla Russia e dall’Algeria.
E paghiamo questa “esile sostanza” ad un prezzo di 15-20 volte superiore di quello prodotto in Italia. Così, mentre occorrerebbe riaprire il dibattito sul nucleare da fissione (appena il ministro Cingolani ci ha provato ha rischiato il linciaggio) che garantisce una maggiore sicurezza anche per quanto riguarda il problema delle scorie, non sarebbe male impiegare le risorse in qualche misura di carattere strutturale. Per esempio, utilizzare di più le estrazioni di gas dagli impianti sopravvissuti dalla furia dei governi Conte, compreso quello che sostituiva col rosso il verde che era in coppia col giallo avviare nuove perforazioni dove sappiamo esservi giacimenti importanti allo scopo di implementare le scorte (magari evitando la tentazione di usare quelle che già ci sono) perché la crisi Russia-Ucraina potrebbe metterci – come si suol dire – in ‘’braghe di tela’’ prima che finisca “l’inverno del nostro scontento”.
Poi sarebbe il caso di smetterla con l’offensiva giudiziaria & ambientalista in Basilicata (basta vedere la stampa locale) contro le compagnie che cercano di estrarre petrolio da uno dei giacimenti – dicono – più pingui d’Europa. Insomma, nessuno pretende che in questo scorcio di legislatura si assumano decisioni nell’orizzonte dei prossimi 50 anni; ma almeno preoccupiamoci dei prossimi mesi. Se non ora quando? Poi c’è la questione dei rifiuti urbani.
A Roma Capitale si è sperimentato un nuovo processo di smaltimento basato sull’economia circolare, nel senso che i rifiuti urbani sono “lavorati” da famiglie di cinghiali che poi li riciclano dei boschi vicino alla città. Ma per quanti cinghiali siano assoldati al posto dei netturbini, non sono abbastanza per soddisfare il fabbisogno. A parte gli scherzi (?) la Corte dei Conti nel suo Rcfp 2021 ha evidenziato, il quadro quali-quantitativo che emerge dell’analisi degli stati di avanzamento delle opere finanziate da fondi pubblici riguardanti la realizzazione delle infrastrutture programmate e finanziate, constatando che si procede a ritmi insufficienti.
Si tratta di una debolezza, secondo la magistratura contabile, nella capacità di execution che non si limita alla gestione dei rifiuti, ma che è insita nel sistema-Paese, essendo trasversale alle opere pubbliche. In media, l’opera finanziata nel settore dei rifiuti risulta essere di importo inferiore al milione.
Un ammontare che, tipicamente, sottende progetti concernenti a piccoli interventi e/o alla realizzazione di opere minori. In termini numerici – sottolinea la Cdc – prevalgono i progetti che riguardano la fase della raccolta, quasi tutti assegnati ai Comuni, benché i finanziamenti più elevati siano quelli relativi al trattamento e allo smaltimento/incenerimento. Più del 60% del tempo che intercorre dalla progettazione all’entrata in esercizio di un’infrastruttura per la gestione dei rifiuti urbani è assorbito dall’iter di progettazione, ivi incluse le fasi autorizzative, a fronte di un tempo tutto sommato fisiologico per l’esecuzione della stessa.