Skip to main content

Il caso Belloni e quell’Italia rimasta con la testa all’epoca dei generali

Se si vuole affrontare la questione dei candidati provenienti dall’intelligence, serve tenere presente un elemento: l’informazione è una delle merci più rapidamente deperibili. Il commento di Adriano Soi, già prefetto e responsabile della Comunicazione istituzionale del Dis, docente di Intelligence e sicurezza nazionale presso la Scuola di Scienze politiche “Cesare Alfieri” di Firenze

Le polemiche politiche scatenate dall’ipotesi che Elisabetta Belloni, direttore del Dipartimento delle informazioni per la sicurezza, potesse essere eletta presidente della Repubblica si sono abbattute sulle prime pagine dei giornali peggio di uno tsunami. Espressioni spesso assai forti, sparate a raffica da esponenti di molte parti politiche per opporsi a quello che veniva definito come un sorta di colpo mortale alla nostra democrazia repubblicana.

L’argomento di base era che la “detentrice di tutti i dossier” – pur essendo unanimemente apprezzata per il suo ultratrentacinquennale servizio alla Farnesina, di cui è arrivata a essere segretario generale – non poteva traslocare da piazza Dante al Quirinale, perché le informazioni contenute in quei dossier avrebbero inevitabilmente compiuto il breve tragitto assieme a lei e le avrebbero conferito un potere sconosciuto a tutti i suoi predecessori, sebbene tra essi ce ne sia stato più d’uno abbastanza pratico di intelligence.

L’argomento, a prescindere dalle ridondanze espressive con le quali era stato sostenuto, aveva una sua indubbia forza e nel giro di poche ore la candidatura è svanita nel nulla.

Ma ora, man mano che ci allontaniamo dall’evento e si posa la polvere acre delle polemiche politiche, è bene tornare a riflettere su cosa c’era sul tavolo e potrebbe tornarci se, come sembra, saranno presentate iniziative legislative intese a disciplinare la questione che è, né più né meno, l’ineleggibilità formale degli esponenti di vertice dei servizi di informazione alla presidenza della Repubblica.

In linea generale, come si sa, le norme che stabiliscono l’ineleggibilità a una carica prevedono anche i modi e i tempi in cui il divieto può essere superato grazie all’adozione di comportamenti idonei a rimuovere la causa ostativa, come avviene per le elezioni al Parlamento. Allo stato, come eloquentemente dimostrato dai convulsi eventi susseguitisi la settimana scorsa, il procedimento elettorale che schiude la strada verso il Quirinale non consente ai possibili candidati di adottare alcuna decisione, se non quella di dare la propria disponibilità.

Ma invece di inoltrarci in un’analisi giuridica per cui qui manca lo spazio, guardiamo le cose da una prospettiva un po’ più ampia, quella del passaggio alla vita politica o ad altra attività di appartenenti – o ex appartenenti – all’intelligence. In quest’ottica, la storia repubblicana ci appare divisa in due fasi: quella che potremmo chiamare l’“epoca dei generali”, che si conclude in coincidenza con la caduta del muro di Berlino, e quella iniziata dopo la riforma del 2007, che ha fatto registrare sino a oggi la ripetuta entrata in funzione delle “porte girevoli” tra l’intelligence italiana e altre attività professionali di vertice.

L’“epoca dei generali” inizia con Giovanni De Lorenzo, che dopo essere stato capo del Sifar dal 1955 al 1962, comandante generale dell’Arma dei Carabinieri (1962-1966) e capo di stato maggiore dell’Esercito, fu eletto deputato per due legislature, dal 1968 al 1971 nel Partito democratico di unità monarchica e dal 1971 al 1973 nel Movimento sociale italiano. Tre anni dopo, nel 1976, entrava alla Camera dei deputati in Parlamento nelle file del Movimento Sociale Italiano – Destra Nazionale Vito Miceli, che aveva diretto il Sid dal 1970 al 1974. Miceli venne rieletto nel 1979 e nel 1983, rimanendo deputato fino alla fine della legislatura (1987).

Le vicende in cui sono stati coinvolti questi due personaggi chiave dell’Italia del tempo della Guerra fredda hanno riempito miglia di pagine di libri di storia, atti parlamentari e giudiziari. Al nome di De Lorenzo si lega la più grande operazione di dossieraggio della storia repubblicana. Miceli nel 1974 fu accusato di aver sostenuto trame golpiste, ma venne definitivamente assolto dalla Cassazione nel 1985 e svolse attività politica fino al 1990, anno della sua scomparsa.

Il generale Ambrogio Viviani, capo della sezione controspionaggio del reparto D del Sid dal 1970 al 1974, quando il servizio era diretto da Miceli, nel 1987 fu candidato alla Camera nelle liste del Partito Radicale, dopo essersi dimesso per alcuni contrasti con il ministro della Difesa, Giovanni Spadolini. Non fu eletto in prima battuta ma subentrò al seggio nel 1990. L’anno successivo passò al gruppo del Movimento Sociale Italiano e vi rimase sino alla fine del mandato.

Luigi Ramponi, comandante della Guardia di Finanza dal 1989 al 1991, diresse poi il Sismi per circa un anno e venne avvicendato nel luglio del 1992, subito dopo l’insediamento del primo governo Amato. Nel 1994 fu eletto al Senato per Alleanza Nazionale iniziando una lunga carriera parlamentare conclusasi nel 2013, nel corso della quale ricoprì la carica di presidente della commissione Difesa della Camera.

Ramponi è l’ultimo dei vertici militari della nostra intelligence eletti in Parlamento e dunque protagonisti di precise scelte politiche. Con lui si chiuse un’epoca ma, nello stesso tempo, se ne aprì un’altra, completamente diversa: partecipò infatti al dibattito sulla riforma dell’intelligence del 2007 e insieme alla senatrice Anna Finocchiaro fu promotore della mozione parlamentare che avviò il processo di costruzione dell’architettura del sistema di sicurezza cibernetica italiano.

Dopo l’entrata in vigore della legge 124, lo scenario cambia radicalmente: si chiude la via che aveva condotto alcuni uomini di punta dei servizi di informazione ad un approdo politico nelle file della destra e si apre quella delle “porte girevoli”, che conducono ex dirigenti del nuovo Sistema di informazione per la sicurezza a ricoprire posizioni apicali in società a partecipazione pubblica e istituzioni pubbliche di garanzia.

Vediamo: il prefetto Giovanni De Gennaro ha lasciato la direzione del Dis per ricoprire prima la carica di Autorità delegata all’intelligence nel governo Monti e poi quelle di presidente di Leonardo e della Banca popolare di Bari; l’ambasciatore Giampiero Massolo, compiuto il suo quadriennio come direttore Dis, è passato alla presidenza di Fincantieri, mentre il prefetto Alessandro Pansa, dopo aver diretto il Dis per due anni, ha assunto la presidenza di Telecom Italia Sparkle; il generale Luciano Carta, ex direttore di Aise, è succeduto a De Gennaro nella presidenza di Leonardo, uno dei cui manager di vertice è Enrico Savio, ex vicedirettore del Dis; questo stesso incarico è stato svolto da Paolo Ciocca, attualmente componente della Consob.

Alla luce di questa breve ricognizione, verrebbe da pensare che chi si è schierato contro l’ipotesi dell’elezione della direttrice del Dis alla più alta carica dello Stato avesse in mente più l’“epoca dei generali”, tramontata da lungo tempo, che non quella delle porte girevoli, nella quale invece stiamo vivendo.

Un fatto però è certo: i governi succedutisi negli ultimi dieci anni hanno ritenuto i dirigenti del Sistema di informazione per la sicurezza della Repubblica idonei alla prosecuzione, da altre e non meno importanti posizioni, del loro lavoro a vantaggio dell’intero sistema Italia. In altre parole, il passaggio dallo “sicurezza dello Stato” alla “sicurezza della Repubblica” – voluto dalla riforma – nel mentre rende un po’ meno segreto il lavoro degli appartenenti all’intelligence, crea anche le condizioni per un utilizzo dei migliori tra loro anche in posizioni pubbliche. La domanda che ora viene posta e crea divisioni profonde è se tra queste posizioni possa essere inclusa la più alta carica dello Stato e, in caso affermativo, con quali modalità.

Per la verità, prima di risolvere questo problema, sarebbe consigliabile porsene un altro: perché è stato così difficile individuare candidati politici? Ma questo è un altro discorso.

Se proprio si volesse affrontare solo la questione relativa ai candidati provenienti dall’intelligence, converrebbe tenere presente che l’informazione è una delle merci più rapidamente deperibili e che, oggi, nessun segreto dura troppo a lungo, neanche quelli in mano all’intelligence. Seguendo questo ragionamento potrebbe allora apparire eccessivo penalizzare con l’ineleggibilità assoluta una ristretta élite di dirigenti pubblici già largamente verificati sul terreno dell’impegno a tutela dell’interesse nazionale e potrebbe invece prendersi in considerazione l’idea di prevedere la necessità di un intervallo di tempo sufficientemente lungo tra la fine dell’incarico nell’intelligence e l’elezione a presidente.

In un Paese che non abbonda di classe dirigente adeguata alle necessità, il buon senso aiuta.


×

Iscriviti alla newsletter