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Rischi e benefici del Chips Act europeo

Il piano della Commissione europea è in linea con lo zeitgeist dei ruggenti anni ’20: ritorno dello Stato e sicurezza delle supply chain per provare a invertire il trend tecnologico a proprio favore. Asml, campione europeo, lo difende. Ma spesso l’innovazione non è un processo pianificabile, specialmente in un’industria come quella dei semiconduttori…

L’Unione europea ha presentato nelle scorse settimane il suo piano per portare il Vecchio continente ai vertici globali nella produzione di semiconduttori. Il progetto, delineato dalla Commissione, è estremamente ambizioso: raddoppiare la quota di mercato entro il 2030 al 20% dall’attuale 10%. Una quota, in valore, indicativa delle intenzioni della Commissione dal punto di vista della fab capacity.

In generale, significherà quadruplicare le attività produttive di fronte ad una rapida crescita del mercato, trainata principalmente dall’Internet of Things, AI, cloud ed edge computing, automotive elettrico e robotica industriale, smart grids. Concentrandosi soprattutto sui chip alla frontiera tecnologica, come spesso ricordato da Thierry Breton.

L’assenza dell’Europa sul fronte foundry per i chip all’avanguardia e i colli di bottiglia che hanno colpito duramente il settore automobilistico hanno scosso i policymakers europei che temono di rimanere lasciati indietro nella corsa tecnologica ed estremamente vulnerabili di fronte alle future disruption. Pesa la dipendenza dai produttori esteri, ora localizzati principalmente in Asia tra Taiwan, Corea del Sud e Cina, con i primi due a detenere la maggior parte della quota globale dei chip più avanzati, ovvero quelli sotto i 7 nanometri. Una preoccupazione che ha smosso pure gli Usa di Joe Biden, che attende con ansia dal Congresso la versione definitiva del Chips Act americano.

L’Ue rimane comunque un nodo centrale nel complesso ecosistema globale dei semiconduttori. Come ha ricordato la Commissione nella comunicazione e nella proposta di regolamento dell’European Chips Act, l’Europa (Eu 27 e Gran Bretagna) rimane un player fondamentale per la fornitura di diritti di proprietà intellettuale, ricerca e sviluppo con centri dedicati in Belgio, Francia e Germania, oltre che materiali ed attrezzature. Uno degli obiettivi della Commissione, infatti, è proprio quello di puntellare questi punti di forza, per un ecosistema europeo che rimanga leader nell’innovazione e nella ricerca, ma con maggiori possibilità di trasferire queste conoscenze sul mercato e in opportunità di business.

A supporto dell’iniziativa dell’esecutivo a Bruxelles, è intervenuta in un position paper Asml, l’azienda olandese leader nella fornitura di equipaggiamento per la fabbricazione dei chip con contratti miliardari con Tsmc, Samsung e Intel. La litografia ultravioletta è infatti essenziale per incidere i chip sui wafer di silicio ad una scala nanometrica sempre più avanguardistica. “Se non fosse presa alcuna iniziativa”, si legge, “la capacità manifatturiera europea di semiconduttori crollerà al 4%, rendendola praticamente irrilevante su scala globale e creando una minaccia strutturale di forniture insufficienti di chip per le industrie europee”. La necessità di un intervento pubblico, secondo Asml, è da una parte condivisibile per il desiderio dei policymakers di gestire, da un punto di vista di risk-management, il ritorno delle fasi produttive in Europa.

Dall’altra, per mitigare il rischio di investimenti in fonderie di nuova generazione, condividendo in parte la complessità e i costi elevatissimi di tale iniziativa con il settore privato dal momento che sul continente manca un’esperienza consolidata nella manifattura di chip all’avanguardia. Le tre aziende leader europee, NXP, Infineon e STMicroelectronics (tre Integrated Design Manufacturers) infatti disegnano e producono i chip per il loro diretti consumatori, che sono principalmente clienti nell’automotive, nell’industria e nelle telecomunicazioni, e che contano rispettivamente circa il 36, 28 e 13% della domanda europea (in miliardi di dollari) di chip. Due terzi di un mercato che, ad oggi, conta principalmente su forniture di chip maturi (sopra i 16-28 nanometri), ma che potrebbe in pochi anni richiedere salti tecnologici importanti, con la penetrazione dei veicoli elettrici, a guida autonoma o delle tecnologie digitali (5G/6G, IoT tra cui sensori e robotica). Ma si tratta di proiezioni e previsioni di cui principalmente solo il settore privato è consapevole. Ed è per la difficoltà di progettare o anticipare l’innovazione, in un settore storicamente sensibile ai cicli di domanda ed offerta nel settore dell’elettronica, che il ricorso ai sussidi pubblici senza una chiara visione strategica potrebbe risultare illusorio.

Lo scorso ottobre, in un rapporto, il governo olandese metteva in guardia di fronte ai rischi del “decoupling” tecnologico. Secondo il testo, gli interessi europei avrebbero potuto essere meglio salvaguardati mantenendo un ecosistema aperto, focalizzato nell’attirare gli investimenti e le capacità innovative. Se guardiamo ai tentativi dei commissari europei di attirare investimenti sul continente da parte dei tre colossi che oggi detengono la tecnologia cutting-edge – Tsmc, Samsung e Intel – la corsa ai sussidi rappresenta uno degli strumenti di fronte ad uno scenario globale che vede Cina, Corea del Sud, Giappone e gli stessi Usa ricorrervi massicciamente. Secondo le stime di Asml, l’Europa dovrà mobilitare 264 miliardi di investimenti in spesa di capitale da qui al 2030 per raddoppiare la sua quota di mercato: una potenza di fuoco che i produttori europei non possono permettersi senza cospicui aiuti di Stato. Ma a quale segmento di consumatori (end-user) si vorrà dare priorità?

Probabilmente la posizione odierna di Asml dimostra una mutata percezione dell’interventismo della Commissione, dal momento che molta enfasi è stata dedicata alla necessità di creare un ecosistema europeo sì resiliente, ma aperto e collaborativo. Perché l’integrazione delle conoscenze, dei differenti modelli di business, la specializzazione geografica di design e produzione rimangono ingredienti essenziali per stimolare l’innovazione. E perché il protezionismo su scala globale rischia di mettere il bastone tra le ruote della legge di Moore. Se da una parte stimolare le capacità produttive rappresenta una hedging strategy per futuri shock sul lato dell’offerta, dall’altra rimanere insensibili ai mutamenti della domanda rischia di cristallizzare un modello produttivo che non tiene conto delle inevitabili mutue dipendenze, ed efficienze, che esistono nel settore e dei cicli tecnologici. È quello che gli esperti definiscono il “trilemma dei semiconduttori”, dal momento che non è possibile garantire contemporaneamente costi competitivi, forniture e innovazione.

Vi sono poi quattro punti specifici su cui vale la pena riflettere. Seppur vi siano buoni risultati dall’intervento del legislatore sui sussidi per la produzione di batterie elettriche, una politica industriale sui chip non è detto che sarà altrettanto soddisfacente. Già nel 2013 fu lanciato un piano sui semiconduttori, ma il target non è mai stato raggiunto. In secondo luogo, vi è ancora l’incertezza su quando, come e da chi verrà trasferita una fonderia all’avanguardia. Tsmc non ha ancora svelato piani per l’Europa, ma ha al contempo già annunciato e confermato investimenti in Arizona (12 miliardi), Giappone (7 miliardi) e Cina (2.8 miliardi). Samsung è rimasta nell’ombra, mentre il colosso di Pat Gelsinger, Intel, è stato a lungo corteggiato dai leader europei: Intel si è detta pronta a considerare nuovi investimenti in Europa, con il Chips Act europeo che potrebbe incentivare questi piani. Resta da capire quanto l’azienda statunitense potrà assorbire i costi di una nuova strategia d’investimento sul segmento foundry di fronte alla concorrenza di Tsmc. In terzo luogo, l’entità dei sussidi posti in essere dai vari paesi industrializzati rischia di mettere fuori gioco il piano europeo nel medio-lungo termine e di dare il via ad una spirale di interventismo pubblico dagli esiti incerti. Infine, le priorità. Il settore automotive europeo è il primo lobbista del Chips Act europeo: superare la crisi corrente è il primo passo, ma servirà pianificare per la transizione all’elettrico che richiederà agli OEMs europei di raddoppiare il numero di chip per unità. La questione degli approvvigionamenti esteri, dunque, resterà centrale.

In conclusione, il ricorso agli aiuti pubblici non deve essere sovrastimato nel risolvere le attuali carenze europee. L’industria dei semiconduttori rimarrà fortemente interdipendente, e considerando i costi esorbitanti per la nuova generazione di foundry la collaborazione lungo la catena del valore sarà vitale per massimizzare i ritorni sugli investimenti e per spingere l’industria nel futuro. “Il Chips Act non dovrebbe essere soltanto accrescere la capacità produttiva di chip dell’Europa”, chiosa Asml, “ma dovrebbe puntare ad assicurare la rilevanze dell’Europa nell’industria globale dei semiconduttori”.


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