Nella relazione annuale il Copasir avvisa: sul 5G cinese il golden power non basta, va rafforzato ma serve altro. Allarme sulle mire di Pechino nelle università italiane, a rischio il know how. E sui porti occorre una strategia
La Cina è troppo vicina. Strigliata del Copasir al governo. Nella relazione annuale il comitato parlamentare di controllo dei Servizi segreti riaccende i riflettori sulla penetrazione del governo cinese negli asset strategici italiani. Dalla rete 5G alle università e la ricerca fino ai porti, la Cina “rappresenta un avversario strategico” per il Paese.
Il primo monito riguarda la rete 5G, una delle tecnologie più sensibili per la sicurezza nazionale al centro da anni di un braccio di ferro tra Stati Uniti e Cina, con i primi che accusano il rivale di inserire “backdoor” nella rete e usare le sue aziende per spiare i Paesi occidentali. Nel dicembre del 2019 il Copasir, allora presieduto dal leghista Raffaele Volpi, aveva lanciato un allarme sulla rete di ultima generazione invitando il governo (Conte-bis) ad “escludere le aziende cinesi dall’attività di fornitura di tecnologie per le reti 5G”.
Come è noto sono diverse le aziende cinesi che operano nel mercato del 5G, a partire da Huawei e Zte, e in Italia hanno uno spazio di manovra importante (nonché una fitta rete di rapporti istituzionali). A due anni da quel monito, avvisa però oggi il Copasir, è stato fatto troppo poco. Lo strumento del golden power ad esempio, anche se sottoposto a diverse modifiche in tempo di pandemia e rafforzato nel raggio di azione, non è sufficiente.
“L’argine costituito dall’ esercizio dei poteri speciali da parte del Governo (il cosiddetto golden power) è stato sistematicamente monitorato nel corso dell’attività del Comitato che ne ha individuato limiti, oltre che margini di miglioramento che saranno esposti nel seguito di questa relazione”, si legge nella relazione. E se è vero che è stata costruita la barriera del “Perimetro cyber” ed è stata inaugurata l’Agenzia per la cyber-sicurezza nazionale (Acn) diretta da Roberto Baldoni, è anche vero, avvisano i parlamentari, che la minaccia è ancora presente, non solo nel campo tecnologico.
“Resta comunque alto il rischio di penetrazione indesiderata da parte di soggetti stranieri nel tessuto produttivo del nostro Paese, caratterizzato da una prevalente presenza di piccole e medie imprese”, spiega la relazione. Aggiungendo che nel corso delle audizioni con i vertici dei Servizi dell’ultimo anno è emerso “che le grandi realtà aziendali italiane sono dotate di strutture di gestione e procedure che consentono loro di individuare rischi connessi con il possibile ingresso di capitali stranieri nel proprio azionariato ed effettuare le dovute segnalazioni alla preposta struttura del Governo”.
Due sono gli altri campanelli d’allarme che l’organo di San Macuto suona in direzione Palazzo Chigi. Il primo: le università italiane sono nel mirino del governo cinese. “Attraverso le informazioni acquisite dal Comitato è risultato infatti crescente l’interesse da parte di attori statuali stranieri, in particolare cinesi, nei confronti del mondo accademico italiano, in special modo per quegli ambiti nei quali più avanzata risulta l’attività di ricerca da questi condotta”.
Sono “diverse” le modalità con cui agenti cinesi avvicinano il mondo della ricerca italiano, avvisa il Copasir, che parla di un “concreto rischio di una sottrazione di tecnologia e know how”. Complice la “diffusa carenza di fondi da destinare alla ricerca sofferta dalle università italiane”. L’infiltrazione dell’intelligence cinese e delle aziende legate a Pechino tra le aule del nostro Paese rischia di costituire “una sorta di “cavallo di Troia” in grado di aggirare i paletti fissati dal golden power rispetto alla penetrazione in alcuni settori industriali strategici”, spiega il comitato bipartisan invitando il governo a prendere provvedimenti.
Il secondo allarme riguarda invece gli interessi di Pechino sui porti italiani, uno dei pilastri del memorandum per la Via della Seta cinese firmato nel marzo del 2019. “Le principali infrastrutture portuali italiane sono già state oggetto di attenzione da parte di attori stranieri. Si pensi ad esempio al caso delle interlocuzioni con il Governo cinese in occasione della sottoscrizione del Memorandum sulla Via della seta, che ha registrato anche un interesse per i porti di Savona-Vado Ligure, Venezia, Trieste, Napoli, Salerno e Taranto”, spiega il rapporto.
Dunque il monito: “Pur non essendo avvenuto un trasferimento del controllo all’estero di queste infrastrutture, esse costituiscono certamente degli asset strategici a rischio. Ciò anche in considerazione della collocazione geografica e della conformazione del territorio italiano che rendono il nostro Paese un ponte strategico tra l’Europa e il resto del Mediterraneo in particolare con i Paesi che si affacciano sulla sua sponda meridionale”. L’invito è quello di inserire “la tutela delle infrastrutture portuali” all’interno di “una più ampia strategia e politica italiana di sicurezza sul Mediterraneo”.