Non è una regola fissa quella che preclude ai grand commis un ingresso trionfale in politica. Nel caso di Mario Draghi l’operazione dovrebbe partire, però, da una premessa indispensabile. Giuliano Cazzola spiega quale
I sostenitori di Mario Draghi al Quirinale si avvalevano di motivazioni molto semplici: nel ruolo di premier l’ex presidente della Bce avrebbe avuto – nel migliore dei casi – la possibilità di arrivare alla fine della legislatura; da Capo dello Stato la Costituzione gli garantiva un mandato di sette anni. Ovviamente la questione non era quella del cursus honorum di Draghi, ma della stabilità della politica italiana in considerazione delle sfide che attendono il Paese nei prossimi anni.
Certo, era facile l’obiezione di cui si sono avvalsi in tanti da destra a sinistra, passando per il centro: abbiamo bisogno della sua guida da Palazzo Chigi per tenere in piedi la maggioranza di unità nazionale e portare avanti il Pnrr, incassando puntualmente quelle rate che la Ue eroga sotto l’avallo del presidente del Consiglio. Come se dal Quirinale Draghi dovesse limitarsi a tagliare nastri inaugurali e poco più. In realtà (se ne è avuta conferma nelle vicende della settimana quirinalizia, ma lo si era già capito dalle reazioni delle forze politiche a commento delle dichiarazioni di Draghi durante la conferenza stampa del 22 dicembre scorso) nessuno era disposto a concedere all’ex presidente della Bce un mandato che lo rendesse arbitro della politica italiana per altri sette anni. Meglio tenerlo a bagnomaria del Parlamento che è in grado di stabilire come e quando liberarsi della sua tutela.
È la solita sindrome dello scorpione che non può fare a meno di pungere (e uccidere) la rana che lo trasporta sul dorso nella traversata del fiume. L’operazione “libera nos a Draghi” è riuscita solo in parte. È vero. l’ascesa al Colle gli è stata preclusa almeno per i prossimi sette anni (perché Sergio Mattarella, giustamente, intende svolgere un mandato pieno, anche per correttezza istituzionale). Ma la rielezione del Presidente uscente (per iniziativa un nutrito gruppo di “franchi tirator” di nuovo conio, i quali non si sono limitati a bocciare le candidature ufficiali peraltro non pervenute, ma ne hanno imposta una di loro gradimento) garantisce – nella misura del possibile – Draghi e il suo governo fino alla conclusione della legislatura.
Mattarella lo ha lasciato intendere mediante la liturgia seguita per accettare la candidatura e gli apprezzamenti, non rituali, espressi nel discorso di investitura. Ma l’Italia – nonostante le apparenze – non è ancora una monarchia costituzionale elettiva; rimane una Repubblica parlamentare. E qualunque governo resta in carica fino a quando gode della fiducia del Parlamento e di una maggioranza.
L’anno che si annuncia presenterà – già se ne vedono le prime avvisaglie – problemi molto seri. Non abbiamo ancora finito i festeggiare il grande balzo in avanti del Pil (che poi è stato solo un importante recupero parziale di quello perduto) che già si intravvede un cambiamento del ciclo economico. Nell’analisi della congiuntura, resa nota in questi giorni, il Centro Studi della Confindustria (CSC) ha presentato un quadro assai problematico (dopo quelli sostanzialmente ottimistici dei mesi scorsi). “L’inversione di tendenza della dinamica dell’attività industriale – è scritto nella nota – è coerente con l’andamento dei principali indicatori congiunturali che negli ultimi mesi hanno segnalato un’attenuazione della favorevole performance economica. L’affievolirsi della fiducia delle imprese manifatturiere, in particolare il calo delle attese produttive, riflette principalmente l’acuirsi degli ostacoli alla produzione che, nel 4° trimestre, hanno penalizzato enormemente l’attività economica. L’insufficienza di materiali e la scarsità di manodopera hanno toccato i valori massimi degli ultimi dieci anni. Significativi anche gli aumenti senza precedenti dei costi di esportazione e dei tempi di consegna. Il perdurante incremento dei prezzi delle commodity – prosegue il CSC – ha contribuito ad erodere i margini delle imprese, penalizzando l’attività industriale. Secondo gli ultimi dati PMI del settore manifatturiero, l’indicatore, pur confermando un quadro espansivo per il diciannovesimo mese consecutivo, registra un rallentamento a gennaio, dato peggiore in 12 mesi, a causa della persistenza di interruzioni sulle catene di approvvigionamento”.
E dove mettiamo l’inflazione che ormai è prossima ad un tasso del 5%, quando fino a pochi anni or sono era necessario produrla artificialmente come la neve nelle piste di sci? In siffatte condizioni (il caro energia non si risolve con i sostegni per le bollette) c’è da aspettarsi – certo non all’improvviso – una revisione della politica monetaria della Bce e una maggiore attenzione della Ue per gli squilibri dei bilanci e il trend del debito.
Cominciano ad emergere i primi segnali di una riconversione green troppo facilona che sta mettendo in difficoltà la filiera dell’automotive. Potrà reggere a un cambio di passo, più sobrio e guardingo, una maggioranza che si è costituita nella prospettiva di gestire una pioggia di risorse mentre i partiti stanno ancora baloccandosi tra maggiori spese e riduzione delle entrate attraverso il taglio delle tasse?
Soprattutto, in vista delle prossime elezioni amministrative e, qualche mese dopo, di quelle politiche. Ma mettiamo pure il caso che il governo e la maggioranza arrivino a fine legislatura. Nel 2023 si vota. Dalle urne uscirà un nuovo Parlamento più striminzito di quello precedente. Che cosa potrà fare Mattarella a quel punto? Dovrà regolarsi sulla base dell’assetto politico disposto dagli elettori. Proprio perché non siamo in un regime monarchico, né in una Repubblica (semi)presidenziale, a Mattarella non sarà consentito di convocare Mario Draghi e affidargli d’acchito l’incarico di formare il governo. Può succedere allora che Mario Draghi venga liquidato con tutti gli onori e mandato come Garibaldi a Caprera con due sacchi di sementi.
Certo all’ex presidente della Bce si apriranno prospettive ben più importanti di quelle dell’Eroe dei due mondi. Ma con la politica avrà chiuso. A meno che non ottenga di nuovo il ruolo di premier; questa volta, però, dalla politica; ovvero misurandosi in prima persona nella competizione elettorale a capo di una Lista/Alleanza Draghi. Lo sappiamo; c’è il cattivo precedente di Mario Monti (il quale ultimamente ha sollevato alcune critiche discutibili a Draghi) e di Scelta civica. Se andiamo, con la moviola della cronaca politica, ancora più indietro, l’operazione non riuscì bene neppure a Lamberto Dini. Ma non è una regola fissa quella che preclude ai grand commis un ingresso trionfale in politica. Nel caso di Mario Draghi l’operazione dovrebbe partire, però, da una premessa indispensabile: una legge elettorale proporzionale (magari con uno sbarramento ragionevole) che consenta anche nella XIX legislatura quello “spariglio” di forze politiche (sottratte ai legami di un innaturale bipolarismo ormai impotente) che è stato alla base dell’attuale governo e della nuova elezione di Sergio Mattarella.