Quei voti sugli emendamenti al milleproroghe, più che un segnale contro Mario Draghi, sono stati un moto di stizza contro quella stessa nomenclatura, che ha difficoltà crescenti nel governare i propri gruppi parlamentari. Meglio però non insistere, i mercati internazionali potrebbero reagire
Qualche giorno fa, da Lilli Gruber, Marco Travaglio, con il garbo che lo contraddistingue, sosteneva che Mario Draghi stava “rosicando” per la sua mancata elezione al Colle più alto. Uno stato d’animo che avrebbe pienamente giustificato la sua risposta tranchant nei confronti di chi poneva domande circa la sua improbabile discesa in campo, alla testa dei “centristi”.
Vista l’insistenza, con una buona dose d’ironia, aveva ringraziato coloro che, con premura, si interessavano al suo futuro professionale. Ma li aveva anche rassicurati, facendo osservare di essere pienamente in grado di trovarsi, eventualmente, un nuovo lavoro. Francamente più che un “rosicone”, in quell’occasione, a noi Mario Draghi era apparso quello che era normalmente: una persona decisa, mille anni luce lontano dalla retorica che prima del Conticidio (altra perla di Travaglio) caratterizzava l’atmosfera di Palazzo Chigi e dintorni.
Poi gli avvenimenti successivi, in qualche modo, ci hanno dato ragione. Il governo che va sotto, per ben quattro volte, nella discussione sul “proroga termini”. Draghi che lascia in anticipo un summit internazionale, pregando Emmanuel Macron di leggere il suo intervento. Per giungere rapidamente a Roma, con l’aereo di Stato, per l’incontro con il Presidente della Repubblica. Più di un avvertimento. E poi, convocati, i capi delegazione dei singoli partiti, il duro alto là. Basta con questi giochetti!
Ce n’era donde. Il luogo del contendere, in Parlamento, di fronte ai drammatici problema del Paese, era inconsistente. Prorogare di un anno il limite di due mila euro, invece che di mille, nei pagamenti per contante. Destinare i 575 milioni sequestrati ai Riva per la bonifica ambientale esterna invece della modernizzazione dell’Ilva. Una maggiore estensione del tempo previsto per la sperimentazione sugli animali e l’aggiornamento delle graduatorie per le supplenze.
Non proprio argomenti dirimenti, ma il segno tangibile di una lontananza. La maggioranza che si divide, contrapponendosi in mille rivoli, mentre la situazione internazionale si colora dei venti di guerra. Con il rischio che, anche per questo motivo, la situazione economica complessiva possa precipitare. Fin troppo facile richiamare alla mente gli anni ‘70 ed i prodromi della vecchia stagflation, seppure con nuovi soggetti (Putin) al posto dei vecchi sceicchi arabi. Ma dalle identiche conseguenze.
Una lontananza che va comunque capita ed analizzata. La verità è che il bis di Sergio Mattarella, alla Presidenza della Repubblica, non era stata una sconfitta di Mario Draghi, ma della politica politicante. Basta rileggere le diverse interviste di Goffredo Bettini, il teorico Pd dell’alleanza organica con i 5 Stelle. L’Italia – aveva sostenuto – deve ritrovare la sua normalità costituzionale, ringraziando i tecnici del lavoro prestato.
Ma riprendendo il controllo della situazione, con la scelta di un Presidente della Repubblica deciso dalle relative nomenclature.
Un elegante benservito, per il duo Draghi – Mattarella. Che invece – ironia della sorte – i backbencher, vale a dire i deputati senza incarichi, hanno riservato ai propri dirigenti. Sergio Mattarella viene rieletto, da un moto, non sapremmo dire fino a che punto spontaneo, ma che si sviluppa, comunque, autonomamente, mentre i big di tutti i partiti cercavano, con la lanterna di Diogene, improbabili candidati. Per cui mentre si bruciavano, nelle interviste dei principali dirigenti, nomi eccellenti, il numero dei voti a favore del vecchio Presidente cresceva, fino a trasformarsi nell’unica opzione possibile.
Qualcosa di simile è avvenuto in questi ultimi giorni nelle aule della Camera dei deputati. Quei voti sugli emendamenti al milleproroghe, più che un segnale contro Mario Draghi, sono stati un moto di stizza contro quella stessa nomenclatura, che ha difficoltà crescenti nel governare i propri gruppi parlamentari. Unita ad una forte dose di irresponsabilità. Non si dimentichi l’articolo 49 della Costituzione. La legittimità dei partiti è concorrere “a determinare la politica nazionale”. “Politica nazionale” non certo semplice manifestazione muscolare.
In altri momenti – questo il commento di parlamentari di lungo corso – il governo, di fronte a simili avvenimenti, non avrebbe retto. Troppo lontano il confronto. Meglio però non insistere. I mercati internazionali potrebbero reagire. Ed allora per la politica stessa diverrebbe tutto molto più difficile.