Presto, un superbonus per Mario Draghi e il suo governo. Non parliamo di edilizia ma di ricostruzione: finita la disastrosa partita per il Quirinale, sarebbe il caso di preparare l’Italia del 2023. Il mosaico di Carlo Fusi
Il governo è bellissimo, sospira Mario Draghi. E un anno passa velocemente. Già: poi che succede? Può apparire una forzatura gettare lo sguardo verso o addirittura oltre l’appuntamento elettorale del 2023: non ci sono forse – dal Covid alle bollette, dalla legge sulla concorrenza alla giustizia – materie più urgenti e provvedimenti più impellenti sui quali discettare? Certo che ci sono. E certo che vanno discettati e sviscerati. Tuttavia se c’è un morbo che si è diffuso nel corpaccione della politica italiana debilitandolo fino allo sfinimento è il day by day, la mancanza di lungimiranza, il rifiuto di programmare a favore dell’immediatezza. Per cui può essere utile provare a guardare lontano, cercando di evitare fughe in avanti.
Dopo la corsa per il Quirinale, il canovaccio che viene recitato da SuperMario e dai partiti di maggioranza è chiaro. Il premier risulta inevitabilmente indebolito e in molti hanno lavorato per arrivare a questo stato di cose; le forze politiche sono impegnate in una campagna elettorale strisciante ma sostanziale, destinata ad accrescere la sua presenza col passare delle settimane e dei mesi.
Che il filo si possa spezzare al punto da costringere il capo dello Stato a sciogliere anticipatamente le Camere non lo crede nessuno. Anche perché ci sono in ballo i miliardi del Recovery che in quel caso rischierebbero di andare in fumo. Per cui si andrà avanti così, con moniti di volta in volta lanciati da palazzo Chigi contrappuntate da resipiscenze più o meno veritiere da parte delle forze politiche. Con in mezzo un Parlamento destinato a diventare sempre più ingovernabile.
Bene: e dopo? Se, come l’esperienza insegna, alla fine non si farà nulla sulla legge elettorale, si andrà a votare con il Rosatellum e giocoforza le coalizioni torneranno a riassestarsi secondo gli schemi usati. In realtà ci sarà un’anticipazione già nella prossima tornata amministrativa, la qual cosa sia nei vincitori che nei vinti rafforzerà la determinazione a non toccare nulla del meccanismo elettorale.
Dunque centrodestra vs centrosinistra, con il primo dato in vantaggio nei sondaggi e probabile vincitore. Solo che non governerà. Le divaricazioni interne tra FdI, Lega e FI sono fortissime, come pure le divergenze strategiche (chiamiamole così) tra i leader. Per cui dietro l’unanimità di facciata le beghe riemergeranno al primo tornante di governo.
Niente di dissimile nel centrosinistra. Che probabilmente, visti i numeri del Pd, limiterà i danni ma che sconterà l’inevitabile ridimensionamento dei Cinquestelle e il suo costrittivo ruolo di junior partner in un’alleanza che nessuno sa dove andrà a parare. Le parole di Goffredo Bettini riguardo la possibilità che Pd e Lega formino una maggioranza assieme dopo il voto sono significative: è il classico taglio delle ali – Fdi a destra, M5S a sinistra – per trovare un equilibrio al centro con le forze che riusciranno a superare lo sbarramento. Più un whisful thinking che una prospettiva reale.
Ebbene se c’è una cosa che l’ultima parte della legislatura ha confermato è che gli sforzi riformisti, obbligatori non solo per ricevere i fondi di Bruxelles ma soprattutto per rimettere in carreggiata il Paese e reinserirlo sul sentiero della cresciuta, sono ultra faticosi ma realizzabili solo con una maggioranza di larghe intese. Le due mezze mele di centrodestra e centrosinistra, troppo sfrangiate e prive di un collante strategico vero, di una visione unitaria strutturata, da sole non possono farcela.
E qui viene il nodo. Quella conformazione (non formula, nel linguaggio chiarificatore del Quirinale) politica è stata resa possibile da un appeasement dei principali partiti di fronte alle emergenze e alle loro insufficienze, e dalla scesa in campo di una personalità di grande spessore come quella di Mario Draghi.
Niente di tutto questo, Bettini a parte, sembra possibile nel nuovo Parlamento, che peraltro sarà dimagrito di un terzo dei suoi componenti. Né, salvo sorprese, è immaginabile che SuperMario possa essere richiamato in servizio.
Dunque si farà avanti un’Italia scossa dalla campagna elettorale, priva di un equilibrio di schieramento stabile e credibile, senza una guida prestigiosa che possa metterla in linea con Francia e Germania. Che nel frattempo, com’è ovvio, punteranno – il fatto che possa essere più o meno risolutivo non conta – a riproporre una diarchia che ha caratterizzato gli equilibri europei negli ultimi decenni.
Facendo gli scongiuri, il meno che si può affermare se davvero le cose andranno così è che l’Italia ha sprecato l’ennesima occasione per fuoriuscire dai suoi limiti e provare ad emanciparsi. Per i malmostosi come chi scrive, lo spreco è stato non mandare Draghi al Quirinale con tutti gli annessi e connessi per assecondare interessi di parte o perfino personali e lasciarsi ammaliare da pifferai magici, suadenti e disastrosi. Ma è acqua passata. L’Italia dal 2023 in poi è da costruire, ma non sembra che i materiali siano i più adeguati. Forse servirebbe un superbonus ad hoc.