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Esercitazioni russe a Barents. L’Artico nella partita ucraina

La questione sicurezza sollevata da Putin usando come pretesto le tensioni sull’Ucraina è molto ampia e riguarda anche il Nord Europa, la fascia dell’Artico e la Scandinavia

Più di 20 navi della Flotta del Nord della Russia hanno iniziato esercitazioni live-fire nel Mare di Barents. L’avvio delle manovre, programmate e segnalate, è stato comunicato dalla agenzia stampa Interfax nelle stesse ore in cui la Difesa russa affidava ai media del Cremlino i comunicati sull’inizio del ritiro di alcune unità dalle aree di confine con l’Ucraina. Ritiro che Mosca racconta come attività di routine, effetto della fine di altre esercitazioni mentre altre ancora continueranno: tutti i reparti di tutti i distretti militari delle Forze armate russe sono attualmente attivati per quella che potrebbe essere descritta come una maxi esercitazione articolata su più fronti. Una simulazione di una sorta di guerra totale.

Le esercitazioni nelle acque artiche tra la Russia e la Scandinavia fanno parte di questo grande wargame che fa temere il peggio, un’invasione dellUcraina (con Mosca pronta a tutte le conseguenze globali che essa avrebbe creato). Il Cremlino nega certi piani, irride l’Occidente per aver alzato il warning (denunciato come disinformazione offensiva russofoba) e lo fa a maggior ragione davanti alle manovre di rientro nelle basi ordinate ai reparti che hanno concluso le esercitazioni.

Ma a Washington, Londra, Bruxelles e Kiev non c’è certezza, si cercano conferme oggettive e la Casa Bianca dichiara che non è ancora finita, il rischio di un attacco resta anche se Vladimir Putin ha fatto sapere di essere pronto ad aprire un ampio dialogo sulle questioni di sicurezza — dimostrando che l’Ucraina è solo un vettore, uno strumento per spingere interessi più ampi. Aspetti che saranno tra i temi della ministeriale Difesa della Nato che partirà a Bruxelles, oggi, mercoledì 16 febbraio. Una data significativa, circolata tra quelle possibili per l’attacco russo sul suolo ucraino.

A mettere in chiaro rischi, dubbi e dimensione della minaccia russa nei giorni scorsi è stato anche il presidente finlandese Sauli Niinisto, interprete di un ruolo di mediazione tra Mosca e Nato, tra Occidente e Russia. Helsinki, sotto il suo protocollo diplomatico, ospitò il vertice Usa-Russia del 16 luglio 2018: il faccia a faccia tra Donald Trump e Putin dal quale l’americano uscì accusato di essere stato ammaliato dell’uomo forte russo in maniera imbarazzante. “Conosco bene Putin e la sua Russia, non  fidiamoci subito” dice (parafrasando in estrema sintesi) Niinisto in un’intervista al New York Times che sta girando parecchio.

In questi giorni Michael McFaul, ex ambasciatore statunitense a Mosca a cui la Russia nel 2016 ha vietato l’ingresso nel Paese perché considerato figura ostile al Cremlino, ha proposto una “Helsinki-2”, dove chiudere un accordo multilaterale che offra garanzie a tutti i fronti in conflitto. Qualcosa di simile è stato pensato anche da Dmitri Trenin, analista dell’ufficio moscovita del Carnegie Endowment for Peace, tra i massimi esperti delle dinamiche che escono e che circondano il Cremlino. Trenin individua la necessità di cambiare gli equilibri dell’Europa dell’Est nella ragione che ha mosso Putin al confronto aggressivo, e la orienta sul piano delle presidenziali del 2024 — dove il presidente che tiene in mano il potere da oltre vent’anni potrebbe cercare una riconferma, a secco di idee per la successione, e nel farlo vuole rivendere la situazione di questi giorni come un successo della sua narrazione.

Il ruolo della regione settentrionale del Mondo è centrale nella questione. Le esercitazioni a Barents sono un’aliquota che dimostra questa centralità. Baltici (Lettonia, Lituania, Estonia) sono per esempio stati molto fermi, quasi aggressivi, nella risposta contro il build-up militare ai confini ucraini. La ragione è evidente, temono di poter essere i prossimi obiettivi di una nuova campagna di destabilizzazione (se non peggio) russa. Sentendo le pressioni sul collo hanno forzato la mano per chiedere all’Occidente di armare l’Ucraina e rafforzare le difese della Nato.

Kiev non è parte dell’alleanza, e in questo un termine che sta circolando riflette il ruolo della geopolitica settentrionale nel dossier ucraino: “finlandizzazione”. Ossia trasformare l’Ucraina in una nuova Finlandia, in ciò durante la Guerra fredda fece Helsinki, Kiev dovrebbe diventare neutrale. L’adesione dell’Ucraina alla Nato “non è nell’agenda”, ha detto il cancelliere tedesco, Olaf Scholz, lasciando intendere che l’allargamento dell’Alleanza atlantica potrebbe essere solo un pretesto per Putin, ma anche mandando un messaggio agli ucraini.

Lo scenario potrebbe essere risolutivo perché darebbe a Putin spazio per la propaganda vittoriosa sul braccio di ferro, ma su quanto efficace non è chiaro — al netto delle volontà di autodeterminazione ucraine, inoltre. In queste settimane da Helsinki — così come da Stoccolma, altro territorio simbolicamente non-Nato ma di fatto allineato con il blocco occidentale — sono usciti messaggi preoccupanti. Ci sono state spinte per riaprire la complessa questione dell’inclusione nell’Alleanza Atlantica, c’è stato l’annuncio per l’acquisto degli F-35, i jet di ultima generazione che segnano (più di ogni altra cosa forse) un ruolo di primo piano nelle alleanze statunitensi.

Non è il massimo delle garanzie per Putin, se si pensa che presto quegli aerei in grado di penetrare le difese aeree senza essere individuate dai radar potrebbero trovarsi ai confini della Russia. Non è il massimo se si pensa anche che nel piano di Putin di allargare anche all’Artico e al Nord Europa le questioni che riguardano la sicurezza e la coabitazione richieste dalla Russia — che in definitiva sono un tentativo per allargare gli spazi di azione e influenza di Mosca.



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