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Francesco, l’Ucraina e l’urgenza di un nuovo pacifismo

Il grande valore culturale, prima che politico, della giornata di digiuno indetta dal vescovo di Roma per il 2 marzo, mercoledì delle Ceneri, raccontato da Riccardo Cristiano

Francesco occupa lo spazio lasciato libero dall’impossibilità a operare come vero centro del multipolarismo dell’Onu e dallo scomparso pacifismo.

È questo il grande valore culturale, prima che politico, della giornata di digiuno indetta dal vescovo di Roma per il 2 marzo, mercoledì delle ceneri. La forza dell’azione del papa della fratellanza spazza il campo da voci che volevano il testimone globale della fraternità, valore fondante per il cristianesimo ma anche per l’illuminismo, acquiescente con il Cremlino. Francesco invece rimane il leader morale globale, non è acquiescente con i poteri mondani se prevaricano, senza essere contro alcun popolo, dunque ricrea uno spazio multilaterale e cosmopolita rimasto vuoto per la crisi esistenziale dell’Onu e del pacifismo.

Le difficoltà dell’Onu sono a tutti note dai tempi dell’assedio di Sarajevo e del genocidio di Srebrenica, è una novità da comprendere invece la scomparsa del movimento pacifista. Solo la Comunità di Sant’Egidio nei giorni trascorsi, ha saputo testimoniare l’esistenza in vita di una tensione che va al di là degli steccati.

L’origine del movimento pacifista è stata americana, con la contestazione lì nata della guerra americana in Vietnam. Noam Chomsky sulla rivista New York Review of Books scriveva: “Occorre prendere misure illegali per opporsi ad un governo indecente”. Il premio Nobel per la pace Martin Luther King, nell’aprile di quello stesso anno a New York, si schierò apertamente contro la guerra definendola “il vero nemico dei poveri”. Il movimento cui le giovani generazioni americane diedero vita divenne presto mondiale.

In Italia come in tutto il mondo si susseguirono moltissime manifestazioni, assemblee studentesche, fiaccolate, raduni nelle fabbriche, veglie di protesta davanti ai consolati Usa. Silvia Casilio in “Controcultura e politica nel 68 italiano. Una generazione di cosmopoliti senza radici” ha ricordato che “secondo Mondo Beat ben 40 mila giovani americani nel ’67 si erano rifugiati in Canada per sottrarsi alla condanna a 5 anni conseguenza del rifiuto a combattere nel Vietnam”. Di lì a breve Casilio nota con acutezza e precisione: “A schierarsi fieramente dalla parte degli obiettori di coscienza fu Don Lorenzo Milani, estensore insieme ai suoi ragazzi di Barbiana di un libro destinato a diventare il manifesto del movimento studentesco italiano Lettera ad una professoressa, che nel ‘66 scrisse: Su una parete della nostra scuola c’è scritto grande ‘I care’. È il motto irriducibile dei giovani americani migliori. ‘Me ne importa, mi sta a cuore’. È il contrario esatto del motto fascista ‘Me ne frego’ […]. L’obbedienza non è più una virtù. Avere il coraggio di dire ai giovani che essi son tutti sovrani, per cui l’obbedienza non è ormai più una virtù, ma la più subdola delle tentazioni, che non credano di potersene far scudo né davanti agli uomini né davanti a Dio, che bisogna che si sentano ognuno l’unico responsabile di tutto”.

Si trovano qui i motivi per cui il pacifismo è profondamente legato “all’America” e al cattolicesimo, che si incontrano come fatti culturali in quell’espressione, “I care”.

C’è dunque la società aperta, l’America way of Life e l’universalismo cattolico nel cosmopolitismo del movimento pacifista, che contesta “l’indecenza”, per dirla con Chomsky, dell’imperialismo americano.

Attento all’importanza dell’opinione pubblica, Vladimir Putin ha avuto estrema cura a presentarsi come una vittima: dell’espansionismo della Nato, dell’imperialismo americano e altro. E certamente la Russia è stata vittima delle scelte concrete dell’“Occidente”, dal punto di vista economico soprattutto, dopo il disfacimento dell’impero sovietico. Resta però il fatto che non fu la Russia a far cadere quell’impero, ma i popoli che aveva stremato e a cui Gorbaciov diede voce. L’unificazione della Germania è stata anche un successo dei tedeschi dell’ex DDR, l’indipendenza dell’Ucraina una libera scelta referendaria votata da un popolo che si è ritenuto tale e ha ricordato molti silenzi, anche dal patriarcato di Mosca e di tutta la Russia, sul massacro stalinista dei kulaki e gli anni di carestia che quel massacro provocò. A questi popoli però non è andata molta simpatia pacifista. Come mai? Anche il popolo russo aveva altro da recriminare, ad esempio l’operazione Barbarossa, l’invasione della Germania nazista, che nella loro memoria peserà di certo. Basta andare in Russia per vedere come in ogni città la cattedrale sia di fronte al sacrario dei caduti. Non so di un sacrario delle vittime dell’Holomodor, lo sterminio dei kulaki ucraini.

Negli anni successivi della storia pacifista questa diversità di comprensione della questione ex-sovietica è diventata grave in Jugoslavia. Il disfacimento della ex-Jugoslavia reca con sé altrettanto note ed evidenti responsabilità occidentali, ma fece emergere leader etno-nazionalisti sia sul fronte filo-occidentale che in quello filo-russo. L’etno-nazionalismo è quel nazionalismo estremo, etnico, che tanto in Croazia che in Serbia ha perseguito un nazionalismo per croati o serbi, indifferente alla cittadinanza per gli altri e ai confini. Lo Stato etno-nazionalista mira a raccogliere tutto il gruppo etnico che gli corrisponderebbe, chiudersi agli altri, espellerli, modificando i propri confini seguendo quello della diffusione degli appartenenti al proprio gruppo etnico. Chi ne ha fatto le spese più di tutti è la Bosnia, Stato plurale per eccellenza. La trasformazione della questione della ex-Jugoslavia in questione filo-moscovita o filo-atlantica ha piegato il pacifismo a una visione antiamericana, come se facendo loro il linguaggio dell’establishment bushiano i pacifisti nominassero l’America vero “impero del male”.

Così il pacifismo è caduto nell’impulso di vedere il problema militare ma non quello politico culturale, e cioè l’etno-nazionalismo che si diffondeva in entrambi i campi.

L’annessione delle due repubbliche autoproclamate nell’est dell’Ucraina è stata ora rivendicata da Putin proprio in nome dell’etno-nazionalismo: l’Ucraina non esiste, esiste la grande madre Russia. Come se noi ci dicessimo romani e rivendicassimo sovranità sulla nuova Roma, Costantinopoli, ora occupata dai turchi.

Questa logica, che non è estranea ai motivi per cui non ci sono state autonomie per russofoni in Ucraina, il mondo pacifista non l’ha saputa cogliere nella sua rilevanza politica e culturale, fermo ai bagliori di Nato o “no alla Nato”. Ciò che salta con l’etno-nazionalismo è enormemente il concetto di Stato, di cittadinanza. Seguendo questo impulso le opinioni pubbliche potrebbero dare a Putin l’unificazione dell’estrema sinistra, dell’estrema destra e di settori del campo della nostalgia cattolica nel nome del no alla modernità, alla pluralità. Francesco direbbe alla fratellanza.


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