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Pinochet, le Falklands e i camion canadesi. Il dirittismo non è libertà

Il convoglio delle proteste dei camionisti canadesi sta arrivando in Europa. Da Parigi i camion marceranno su Bruxelles, la nuova Babilonia delle regole e dei doveri contro i quali è considerato giusto opporsi in nome di una libertà abusata che, invece, è arbitrio, licenza, sopraffazione. Sarà necessario dosare fermezza e cautela, rispondendo con le armi della legge, scrive Cazzola

Per una persona della mia generazione lo sciopero dei trasporti su gomma evoca un evento tragico che colpì l’opinione pubblica mondiale all’inizio degli anni ’70: il golpe in Cile contro il governo di Unitad Popular di Salvador Allende dell’11 settembre 1973 che fu  annunciato da tante proteste popolari, tra le quali, l’anno precedente, da uno sciopero dei camionisti.

In realtà si trattò – in senso tecnico – di una serrata che iniziò , il 9 ottobre 1972,  quando 165 società di autotrasporto fermarono gli oltre 50mila camion lasciando a casa oltre 40mila autisti. Lo sciopero/serrata durò  24 giorni; vi aderirono tassisti, sindacati di estrema destra e gruppi paramilitari che nel giro di un anno, avrebbe portato all’avvento della feroce dittatura militare di Pinochet. La protesta mise in ginocchio il Paese, già provato per tanti altri gravi motivi, tra i quali un’inflazione a tre cifre (e ad alcune centinaia) che ovviamente aveva devastato, per i rincari del carburante e delle tariffe, il settore dell’autotrasporto. Occorre tener presente che il Cile è un Paese stretto e lungo (più di 4mila km), che non esisteva (credo che sia più o meno così anche adesso) un sistema di trasporto pubblico.

A chi scrive è capitato da vedere da vicino gli effetti di un’inflazione tipica di un Paese sud-americano. Fu nel 1982, quando fui mandato in missione dalla Cgil, in diversi Stati del continente (allora quasi tutti sotto il giogo di dittature militari) per portare solidarietà e aiuti alle opposizioni democratiche che operavano in regimi di semi-clandestinità.

In Argentina era in corso la guerra delle Falkland; l’inflazione era tanto elevata che la Zecca non riusciva a stampare la nuova moneta e si arrangiava timbrando con i nuovi valori sulla banconote circolanti (non ho usato l’aggettivo “vecchie’’) perché erano state stampate magari solo qualche giorno prima.

Con questa premessa non intendo dire che quella storia si sta ripetendo nelle proteste dei camionisti canadesi che stanno per dilagare negli Usa e in Europa. Le istituzioni politiche e civili sono forti e solide e non è la prima volta che sono chiamate a fare fronte a crisi molto serie, siano esse legate all’economia, al terrorismo, alla pandemia (da cui non siamo ancora usciti), alle minacce di guerra nel cuore dell’Europa e in tanti altri scacchieri (dove da anni si è passati alle guerre vere); il fenomeno però è inquietante. Perché da anni scoppiano, in giro per il mondo, proteste, anche violente, per motivi che in sé non giustificano le azioni che le alimentano.

Si pensi al caso dei gilet gialli in Francia che ha fatto temere lo scoppio di un nuovo ’68 e che, tutto sommato, è durato molto più tempo del maggio della contestazione. Poi c’è da restare allibiti di fronte ai movimenti no-vax e a quanto la prodigiosa scoperta di un vaccino ha scatenato un po’ ovunque, mescolando in una sintesi micidiale i turbamenti ancestrali di cui soffrono gli esseri umani con una narrazione drogata e falsificata dal web che si è rivelato un virus che circola indisturbato senza possibilità di antidoti e vaccini.

È come se si fosse aperto il Vaso di Pandora, si fossero riprodotte le “sette piaghe”, si fossero rimessi in corsa i Cavalieri dell’Apocalisse, l’angelo avesse aperto il settimo sigillo. In Canada, la protesta è nata in risposta alla misura che ha imposto l’obbligo del vaccino ai camionisti che trasportano merci verso gli Stati Uniti. Ben presto si è trasformata in un movimento più vasto contro le misure adottate contro la pandemia, che ha come obiettivo principale la caduta del governo Trudeau. Il Canadian Anti-Hate Network, gruppo che studia i movimenti estremisti, ha documentato i legami tra gli organizzatori di questo movimento e l’estrema destra nordamericana.

Migliaia di persone sono scese in piazza ad Ottawa. I residenti sono furiosi per lo squillo continuo di clacson, l’interruzione del traffico e le molestie e temono che non ci sia una fine in vista. Il “convoglio di camion della libertà” ha attirato il sostegno dell’ex presidente americano Donald Trump.

Il sindaco di Ottawa Jim Watson ha parlato di situazione “fuori controllo”: a suo giudizio i manifestanti rappresentano “una minaccia per la sicurezza della città e di tutti i residenti”. Dichiarando lo stato di emergenza,  Watson ha chiesto così l’aiuto del governo centrale e di altre giurisdizioni.

Ora il “convoglio’’ arriva in Europa. Da Parigi i camion marceranno su Bruxelles, la nuova Babilonia delle regole e dei doveri contro i quali è considerato giusto opporsi in nome di una libertà abusata che, invece, è arbitrio, licenza, sopraffazione. I regimi democratici non possono reagire come se fossero in piazza Tienanmen. È necessario dosare fermezza e cautela, rispondendo con le armi della legge. Ciò non deve significare, però, tolleranza e cedimento.

Vi è un uso legittimo della forza a cui uno Stato non può rinunciare per difendere quella libertà che gli estremisti invocano per sé e calpestano per gli altri. Si serve il proprio Paese – si diceva un tempo – anche montando la guardia a un bidone di benzina. Ma non si fa la rivoluzione per quel bidone. Franklin D. Roosevelt fu il presidente che  – con la legge Wagner del 1935 – diede avvio a quella legislazione di sostegno della attività sindacale che, da noi, trovò espressione più di trent’anni dopo nello Statuto dei lavoratori. Ma quando, durante la Seconda guerra mondiale, i sindacati a Chicago – con obiettivi molto discutibili – paralizzarono il trasporto pubblico, quel grande democratico mandò l’esercito a riportare l’ordine.

I diritti sono scritti col sangue dei combattenti per la libertà. Ma il “dirittismo’’ (copyright  di Alessandro Barbano) è il principale nemico della libertà stessa.

(Foto: Flickr-Serge C)

 


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