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Masi, presidente del Cnf, racconta come cambiano giustizia e società

Marta Cartabia alla Giustizia, Gabriella Palmieri all’Avvocatura generale dello Stato e per la prima volta in quasi cento anni di vita dell’istituzione, Maria Masi è presidente del Consiglio nazionale forense, l’organo di rappresentanza dell’avvocatura italiana. Una svolta storica per il sistema giudiziario. Elvira Frojo l’ha intervistata per Formiche.net

Sistema giustizia sotto riflettori. Tra polemiche e intrecci tra politica e magistratura, tra riforme per il processo civile e penale e per modificare l’organizzazione e il funzionamento del Csm.

Quali possibili interventi per restituire alla giustizia centralità e credibilità?

Ne parliamo con Maria Masi, avvocato civilista del Foro di Nola, esperta in Diritto di famiglia e Diritto del lavoro. Coordinatrice commissione pari opportunità, presidente del Consiglio nazionale forense, istituzione apicale del sistema ordinistico dell’Avvocatura. Prima donna al vertice in quasi cento anni di vita del Cnf. Eletta all’unanimità nell’ultima seduta plenaria. Sposata e madre di due figli.

Donna dal fascino umano e professionale. Conquistano il sorriso dell’accoglienza e dell’ottimismo, con il rigore della professionalità e della concretezza. In una piacevole conversazione, l’avv. Masi tocca punti nodali del sistema giudiziario con profondità tecnica e con la sensibilità della donna.

Una svolta storica per il sistema giudiziario. Ministro della Giustizia Marta Cartabia. All’Avvocatura generale dello Stato, Gabriella Palmieri. E, per la prima volta in quasi cento anni di vita dell’Istituzione, lei è presidente del Consiglio nazionale forense, l’organo di rappresentanza dell’avvocatura italiana. Tra “padri” del diritto come Francesco Carnelutti e Arturo Rocco, Piero Calamandrei e Enrico De Nicola. Eletta all’unanimità. Cosa significa, oggi, avvocato Masi?

Nell’immediato, pur credendo nella cultura della parità di genere, che è anche parte della mia formazione da giurista, non ho colto specificamente questo aspetto, impegnata ad occuparmi di tutte le problematiche dell’avvocatura nell’accezione più ampia, insieme a tutto quanto ha interessato il sistema giustizia con riguardo all’emergenza sanitaria. Rappresentare la componente femminile, per la prima volta, nell’istituzione apicale, è, per me, la consapevolezza di avere una responsabilità ancora maggiore nell’esercizio delle funzioni.

Le Istituzioni, come le aziende, sono sempre più consapevoli che la parità di genere sia asse strategico di sviluppo. La sua nomina, in quanto donna, fa ancora notizia ma criterio di scelta è, naturalmente, la professionalità, non il genere. Nella sua esperienza di tematiche sulle pari opportunità, quali sono, oggi, i maggiori ostacoli per l’accesso delle donne in ruoli di responsabilità di vertice, per una parità di diritti a parità di situazioni?

Sì, si discute molto e c’è un fermento diverso rispetto a qualche anno fa sull’importanza e sulla necessità del contributo del genere femminile in alcuni contesti decisionali. Ci sono, tuttavia, ancora molte contraddizioni. Perché se, da un lato, c’è sicuramente un humus favorevole e una maggiore consapevolezza, guardando ai numeri, la componente femminile nei consigli di amministrazione delle aziende è tuttora bassa. La legge Golfo-Mosca ha rotto un argine e l’avvocatura ha auspicato una proroga di quella norma che declina un “equilibrio” di genere. Mi piace utilizzare il termine “equilibrio di genere” più che “quote rosa”, nel senso di apertura, più che di accettazione. La presenza femminile, per quanto più qualificata in termini numerici rispetto ad anni fa, non conforta questo equilibrio.

Conciliazione dei tempi dell’impegno tra casa e lavoro, differenze reddituali per il pubblico impiego, per le aziende come per le libere professioni, sono temi sui quali non si discute forse abbastanza o, meglio, non sono stati ancora individuati adeguati strumenti per arginare il divario di genere e considerare la disponibilità femminile.

Non solo competenza e determinazione ma anche empatia e ascolto sono i valori “femminili” oggi riconosciuti vincenti nel mondo del lavoro e per fondare una società migliore. E alla donna si riconosce la capacità di guardare nella fragilità come possibilità di apertura verso la condizione dell’agire umano. Anche per la comprensione delle ragioni sottese alle richieste di tutela processuale? È una nuova forza? Una prospettiva tutta al femminile?

Credo di averlo detto anche nel mio intervento in occasione dell’inaugurazione dell’anno giudiziario. Ci credo davvero. Si parla molto di giustizia predittiva, intelligenza artificiale quali strumenti diversi ma funzionali per arginare o comunque indirizzare gli orientamenti, anche ai fini di una semplificazione e quindi di un accesso calibrato alla giustizia. Si parla poco, invece, di quello che dovrebbe essere un aspetto fondamentale, soprattutto e anche per la giustizia. L’empatia, cioè la capacità di immedesimarsi nelle situazioni che sono sottese alla domanda di giustizia richiesta. Perché non sono valori astratti, sono storie di vita.

Nell’udienza per l’inaugurazione dell’anno giudiziario della Rota romana, Papa Francesco ha sottolineato che, nella verifica e nel giudizio, è necessario un approccio sinodale di ascolto per comprendere la visione e le ragioni dell’altro. Un lavoro che manifesta il “volto materno che si china su ogni fedele per aiutarlo a fare verità su di sé”. Ma, nell’ordinamento giuridico italiano, c’è spazio per un sistema di giustizia fatto anche di umanità?

Sì, certamente, anzi è quasi un imperativo e dovrebbe avere assoluta precedenza su altri. Il nostro è un sistema che lo consente, oggi, pur essendo, sotto il profilo tecnico, un ordinamento definito civil law, cioè un sistema codificato di norme generali astratte, e poi applicazione concreta. Un limite, fino a qualche anno fa, rispetto ad altri sistemi di tipo anglosassone in regime di common law, con approccio al “caso” e, viceversa, dal particolare al generale. Oggi questo distinguo nel nostro sistema, è in parte superato in alcune aree, alla luce dell’apporto giurisprudenziale, anche in maniera correttiva di norme, sbagliate o difficili da interpretare e quindi da applicare. Oppure, con riguardo a temi sui quali la società si è evoluta in maniera più veloce rispetto al legislatore, la giurisprudenza è necessariamente intervenuta, come ad esempio sulle unioni civili.

La distinzione si è quindi sfumata tra intervento ordinamentale e giurisprudenziale. Dovremmo valorizzare proprio l’approccio al “caso” cioè alla situazione, soprattutto in alcune materie, e quindi attraverso ascolto e immedesimazione.

La violenza ha tanti volti. In apertura dell’anno giudiziario 2022, l’allarme è stato, soprattutto, rivolto ai femminicidi. La legislazione è sufficientemente adeguata o lei ritiene che non lo sia? La società sembra arretrare rispetto ad un cambiamento culturale volto a sradicare pregiudizi e stereotipi. Come ritiene si possa realizzare un’inversione di marcia?

È uno degli ambiti in cui il problema non è la mancanza di norme ma il difficile coordinamento, soprattutto con riferimento alla violenza domestica. L’avvocatura ha denunciato, da tempo, il difetto di comunicazione tra norme che devono, viceversa, essere compatibili, ad esempio, tra sistema di giustizia civile e penale. Spesso si passa, insomma, dalla fase fisiologica a quella patologica dopo separazioni, divorzi o situazioni di fatto e interviene, poi, l’elemento scatenante oggetto di cronaca. È un esempio di inadeguatezza del sistema di correlazione e di rete che deve partire dall’ascolto, dalla denuncia, quando formalizzata, o anche dalla non denuncia e da indicatori di disagio. E’ essenziale il collegamento tra ospedali, presidi sanitari e medici di base, polizia e carabinieri e centri antiviolenza. La donna che è in pericolo sa che può ricorrere alle tutele ma ha ancora il timore derivante dall’incertezza di esporsi a quello che, poi, accadrà. Sia a causa della lunghezza dei tempi successivi sia per la mancanza di strutture di enti e istituzioni adeguate a far fronte anche al sostegno economico, soprattutto in assenza di una propria famiglia d’appoggio.

Un profondo processo riformatore del Paese deve interessare anche il versante della giustizia, ha affermato il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella nel suo discorso di insediamento. E rispetto alla funzione del Consiglio nazionale forense? E quali prospettive con la riforma Cartabia?

Abbiamo molto apprezzato, come avvocatura in generale e in particolare come avvocatura istituzionale, il richiamo espresso, forse per la prima volta, all’avvocatura e alla magistratura nello stesso momento. Monito ed esortazione a pensare e a immaginare insieme sul processo di riforma in termini di accelerazione, esigenza prioritaria.

Sulla riforma della giustizia il Consiglio Nazionale, quasi come dovere morale, ha fornito il proprio contributo e alcuni aspetti sono stati recepiti. Le richieste dell’avvocatura sono finalizzate ad un equilibrio del sistema giustizia. Siamo particolarmente fiduciosi per il diritto di famiglia. Realizza un progetto promosso dal Consiglio nazionale, rito unico e istituzione del Tribunale unico per la famiglia. Sembra poter essere un’opportunità per risolvere quel gap di comunicazione tra percorsi civili e penali, atto dovuto e non semplicemente buona prassi o volontà da parte degli operatori, magistrati e avvocati.

Altro tema importante recuperare una “rigenerazione” etica e culturale per una maggiore credibilità del sistema giudiziario, come invocato dal Capo dello Stato.

In questo momento l’esigenza è anche quella di recuperare, per il sistema giudiziario, una credibilità ed eticità. Le dinamiche che hanno caratterizzato gravi fatti sui quali si discute da mesi e che hanno sicuramente minato la credibilità di una giustizia identificata soprattutto con il “potere” giudiziario. La magistratura deve essere individuata principalmente come “funzione”. La mancanza di equilibri all’interno del sistema si riflette anche sui principi di democrazia del Paese e riguarda, quindi, tutti. In linea con quanto espresso più volte dall’avvocatura, è ora affermato il divieto di svolgere funzioni giurisdizionali per i magistrati che abbiano ricoperto incarichi elettivi o governativi.

Un’ultima considerazione di prospettiva per il Consiglio? E nei rapporti con la magistratura?

Il tempo non è tantissimo, almeno quello che poi segna o segnerà comunque la fine di questo mandato di consiliatura. Questa situazione alimenta ancora di più quel senso di responsabilità al quale ho fatto riferimento all’inizio. È, dunque, un tempo in cui, oltre gli impegni “tecnici” della riforma del sistema giustizia, si ha necessità anche di altro, qualcosa che attiene più da vicino alla nostra professione. Con questa consapevolezza, c’è massima attenzione e più ampia capacità di ascolto. Un obbligo morale perché abbiamo necessità, come avvocatura istituzionale, di intercettare i bisogni dell’avvocatura, molto eterogenea, ancor più nel corso degli ultimi anni. L’avvocatura attraversa una crisi economica, come per altre libere professioni, ma anche una crisi identitaria. Perché è difficile immaginare di poter svolgere ancora la professione così come eravamo abituati a immaginarla, con i cambiamenti in parte provocati da necessità di adattamento a situazioni sopravvenute, quale l’emergenza sanitaria. Occorre immaginare una giurisdizione diversa e investimenti in risorse alternative ma non meno qualificanti, rivedere situazioni marginali o sinora ritenute non compatibili ma fermi restando, comunque, i principi e senza volontà di abdicare autonomia e indipendenza. Nel rapporto con la magistratura, auspichiamo il rispetto del concetto di dignità nell’esercizio delle nostre funzioni. Un concetto molto semplice evocato dal Presidente della Repubblica nel suo discorso ma, spesso, sottovalutato.

 

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