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Il chips act europeo, tra ambizioni e realtà. L’analisi di Zecchini

Lo scenario più probabile sarà che la produzione europea sarà potenziata, saprà conquistare più nicchie di mercato offrendo chips disegnati sulle specifiche domande di singole industrie, e le filiere del valore saranno ristrutturate per minimizzare i rischi di interruzioni o carenze negli approvvigionamenti. L’analisi di Salvatore Zecchini, economista Ocse

Una delle condizioni necessarie per avanzare rapidamente nella transizione alla digitalizzazione è la disponibilità di microprocessori (micro-chips) in quantità sempre più grandi, ad alte prestazioni ed efficienti sotto il profilo energetico. Questa condizione è venuta a mancare fin dallo scorso anno specialmente in Europa a causa dell’incapacità della produzione sia interna che esterna di soddisfare l’impennata della domanda determinatasi con la ripresa delle attività nel post-pandemia.

L’Ue dipende per la maggior parte da produzioni effettuate in Asia, che si basano tra l’altro su ricerche e disegni di origine europea e americana, oltre che sulle terre rare di origine cinese. Nei paesi europei si trovano punte di eccellenza in queste fasi di creazione di chips, ma non in quelle di produzione, impacchettamento ed assemblaggio che sono, invece, fortemente concentrate in quelli asiatici, in cui è possibile ottenere un miglior rapporto prezzo-qualità e in cui si è anche investito molto nella ricerca e nel disegno dei chips. Le limitate capacità produttive europee, inoltre, riguardano i chip meno avanzati (da 22 nanometri in su), mentre per quelli più avanzati (sotto i 7 nm) bisogna rivolgersi ad asiatici ed americani.

La penuria di chips sta avendo effetti devastanti per i settori che fanno largo uso di chips, in particolare, costringendone alcuni, particolarmente quelli dell’automotive e dei macchinari e attrezzature a ridimensionare la produzione ed allungare oltremisura i tempi di consegna. Si calcola che nei primi 10 mesi dello scorso anno a causa della carenza di chips in Europa si sia perduto il 5,1% della produzione industriale e che in alcuni paesi europei quella di automobili sia stata decurtata di oltre un terzo. Le difficoltà europee sono pertanto il risultato di due fattori principali: da un lato, non si è investito abbastanza nello sviluppo di chip avanzati e nella produzione, e dall’altro lato, non si è messa in sicurezza la catena di fornitori, diversificando le fonti ed evitando di cadere in una condizione di dipendenza critica dall’estero.

Per superare queste criticità che condizionano pesantemente crescita e competitività, la Commissione Ue ha da ultimo proposto un ambizioso programma di interventi con diversi obiettivi: portarsi alla frontiera tecnologica nello sviluppo di chips sempre più avanzati, ridurre la dipendenza dall’estero per i chip d’avanguardia, incrementare la sua quota della produzione mondiale al 20% in meno di dieci anni rispetto al 10% attuale, e ristrutturare le filiere del prodotto per renderle sicure e resilienti in caso di crisi.

Gli strumenti per raggiungerli sono un intenso coordinamento degli interventi degli Stati membri, la collaborazione con altri paesi di vedute analoghe, il potenziamento delle attività di innovazione e produzione mediante la creazione di un ecosistema favorevole, e maggiori finanziamenti sia per la R&I, sia per le successive fasi della filiera del valore nel passaggio dalla ricerca al mercato. La dimensione dello sforzo che si richiede si può cogliere nell’obiettivo di quadruplicare la produzione di micro-chips entro il 2030, coprendo i segmenti più avanzati e diventando un grande fornitore sui mercati mondiali.

L’iniziativa è pregevole perché rappresenta un esempio di come la Commissione non rifugge dall’intervenire con misure di politica industriale a tutto tondo, quando emerge un problema di scala europea. In questo disegno l’intervento assume la forma sia diretta di aiuti e finanziamenti, sia indiretta di catalizzatore degli investimenti privati, offrendo agli investitori una prospettiva certa di sviluppo e un programma organico, che intende affrontare il problema in tutti i suoi lati e diramazioni, dalla ricerca al finanziamento e alla formazione delle competenze, fino alla governance che prevede un coordinamento delle azioni dei paesi per assicurare la sicurezza delle linee di approvvigionamento.

Entrando nei dettagli della proposta, tuttavia, non è difficile accorgersi della distanza che separa la grandezza dell’ambizione e la realtà dei mezzi che si intende dispiegare. Di prima evidenza è la sproporzione tra le risorse che si intende mobilizzare e gli sfidanti traguardi che si vuole raggiungere nell’arco di otto anni. Per sfide simili i maggiori paesi, con cui si deve competere, hanno impegnato fondi molto più consistenti. La Commissione propone una cornice finanziaria di oltre 43 miliardi di euro, che dovrebbe attingere a una varietà di strumenti finanziari, in parte individuati tra quelli esistenti e per il resto lasciati indeterminati perché soggetti a decisioni di entrambi, imprese ed enti finanziatori.

Di certezza sull’importo delle risorse messe a disposizione ve ne è poca. 11 miliardi proverrebbero dall’insieme degli aiuti europei e degli stati sotto il cappello della Chips for Europe Initiative. 2 miliardi dal nuovo Chips Fund che dovrebbe fornire capitali di rischio (equity e quasi-equity) alle start-up e ad altre imprese per facilitare progetti fortemente innovativi. Altre risorse sarebbero fornite dagli stati membri ricorrendo anche ai fondi strutturali europei e ai Pnrr, e ad esse si aggiungerebbero i finanziamenti tratti dai programmi di Horizon Europe e Digital Europe Programme, che sarebbero ampliati.

Un miliardo sarebbe il contributo del Quantum Technologies Flagship, il nuovo strumento per sostenere le tecnologie quantistiche. La BEI dovrebbe fornire prestiti aggiuntivi, probabilmente come al solito, garantiti dallo stato. Di fonte privata e pubblica sarebbero i mezzi per avviare un nuovo Ipcei, che rientra tra i progetti importanti sostenuti dalla cooperazione di più Paesi.

Nel complesso, l’impegno finanziario effettivo sarebbe indeterminato, in quanto imperniato soprattutto sulla mobilitazione di capitali privati con il sostegno complementare di aiuti pubblici limitati e condizionati. Lo sviluppo di chips avanzati e la loro produzione richiede, invece, massicci investimenti di non breve durata e ad alto rischio, che, come riconosce la Commissione, postulano notevoli sostegni pubblici. Di conseguenza, la stessa propone eccezioni alla rigorosa disciplina sugli aiuti di stato, ma a condizione che si tratti di investimenti con spiccate caratteristiche di novità per l’Europa, siano ad alta tecnologia, non sarebbero realizzati senza l’aiuto pubblico, e si autosostentino nel lungo periodo. Gli aiuti sono autorizzati soltanto dopo un esame caso per caso, in cui si verifica se i benefici superano le ripercussioni negative sulla concorrenza. Troppe le condizioni poste, che si pongono quindi come ostacoli al raggiungimento degli obiettivi di produzione nel periodo fissato.

In contrasto, gli Stati Uniti hanno impegnato in programmi analoghi 52 miliardi su un quinquennio, in particolare per espandere la produzione all’interno, la Corea del Sud 450 miliardi fino al 2030, il Giappone 8 miliardi e la Cina importi stimati in 150 miliardi fino al 2025. A questi si aggiungono investimenti ancor più consistenti delle grandi società private. La dimensione quantitativa del programma europeo appare anche inadeguata rispetto all’incalzante tabella di marcia, che prevede di quadruplicare la produzione di chips avanzati entro il 2030. Per realizzare nuovi stabilimenti sono necessari più anni e rilevanti investimenti complementari, specialmente nella formazione di competenze tecniche, che attualmente sono carenti.

La proposta della Commissione, pertanto, mira a favorire la nascita di un ecosistema che si compone di una forma blanda di coordinamento tra stati, di cooperazione con le imprese private, e di azioni per attrarre talenti, formare le risorse umane, mettere insieme le conoscenze, creare piattaforme pilota accessibili a tutte le imprese europee, istituire strutture di certificazione dei chips, monitorare gli sviluppi del settore, avviare un sistema di anticipazione delle situazioni di crisi e per disporre in anticipo le contromisure. Nei casi di crisi vi sarebbe una gestione accentrata a Bruxelles nello stabilire priorità per l’approvvigionamento dei settori critici e per gli acquisti in comune.

Ma per una simile gestione di settore bisognerà superare gli egoismi e particolarismi dei grandi paesi membri e delle grandi imprese, che potrebbero tentare di accaparrarsi la fetta maggiore degli input produttivi e del mercato. Qui entra in gioco la capacità finanziaria delle maggiori imprese nazionali, che sarebbero in grado di dominare il mercato interno a scapito di quelle dei paesi con minori capacità finanziarie. Si andrebbe verso una maggiore concentrazione produttiva che, se opportuna per confrontarsi con i giganti americani ed asiatici, potrebbe scoraggiare la concorrenza e rallentare la ricerca per realizzare chips più avanzati o per sviluppare nuove tecnologie.

Incrementare la produzione all’interno per ridurre la dipendenza dalle importazioni comporta anche costi maggiori per i settori utilizzatori dei chips, perché se attualmente gran parte della domanda europea è soddisfatta da chips di fabbricazione extra-europea, questo è il risultato della loro convenienza di costo e superiorità tecnologica. Considerato che produrre in Europa costa relativamente di più che in Asia, se si vuole spiazzare la concorrenza estera occorre o divenire così competitivi per prezzi e qualità da conquistare ingenti quote del mercato mondiale tali da permettere di ammortizzare i notevoli investimenti necessari, o godere di consistenti aiuti o agevolazioni come avviene in Asia, oppure operare al riparo di barriere commerciali di varia natura.

Nessuna delle tre ipotesi sembra di facile realizzazione allo stato attuale. La Commissione accenna soltanto alla possibilità di restrizioni all’esportazione di chips nel caso di crisi da carenza di offerta per il mercato interno, senza menzionare che il conseguente calmieramento dei prezzi avrebbe un effetto negativo sulla propensione a investire.

Quindi, lo scenario più probabile sarà che la produzione europea sarà potenziata, saprà conquistare più nicchie di mercato offrendo chips disegnati sulle specifiche domande di singole industrie, e le filiere del valore saranno ristrutturate per minimizzare i rischi di interruzioni o carenze negli approvvigionamenti. Ma sarà molto difficile rinunciare alla globalizzazione della produzione, come della R&S, perché i costi per tutti, imprese, consumatori e soggetti pubblici, sopravanzerebbero in misura importante i benefici di una desiderabile autonomia.


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