Un attacco fallito in Siria e un capo eliminato. Sono state due settimane difficili per l’Isis, o quel che ne resta. Ma l’offensiva di Joe Biden non ha ancora sradicato i jihadisti. La nuova mappa del terrore nell’analisi del generale Carlo Jean
Due settimane molto dure per quanto rimane dell’IS nel Vicino Oriente. In primo luogo è fallito l’attacco alla prigione di Hasakah nella Siria nord-orientale. Era iniziato il 21 gennaio e durato cinque giorni. In secondo luogo, si è ucciso il 3 febbraio a Idlib, nella Siria nord-occidentale, al-Hashini al-Qurashi, capo dell’IS, succeduto al califfo Abu Bakr al-Baghdadi, a sua volta suicidatosi nell’ottobre 2019 sempre per non essere catturato in raids delle forze speciali Usa.
I due eventi danno lo spunto per esaminare che cosa sia rimasto dell’IS e quali ne siano la strategia e i rapporti con al-Qaeda, dopo la sconfitta nel Vicino Oriente nel 2019 e la vittoria dei Talebani che, in Afghanistan, sono alleati con quanto resta di al-Qaeda e hanno continui scontri con lo IS della Provincia del Korasan. ù
Tale rivalità e combattimenti fra le due organizzazioni jihadiste avvengono anche in Africa, specie nel Sahel, e nell’Asia sud-orientale. Non sono dovute solo alla competizione fra i loro capi locali, ma anche alla diversità delle loro strategie e priorità operative, che peraltro non sono contrapposte come erano nei tempi del loro splendore.
Il fallito assalto alla prigione di Hasakah ha messo in rilievo due fatti. In passato erano spesso sottaciuti.
Innanzitutto che l’IS, pur sconfitto e pur avendo subito pesanti perdite e perduto territorio e i fondi provenienti dal contrabbando di petrolio, non solo non è stato distrutto, ma mantiene nella “Mezzaluna Fertile” – per lui anche simbolicamente strategica – una considerevole capacità operativa e di comando e controllo.
Lo ha dimostrato con il coordinamento di una mezza dozzina di attentati suicidi per penetrare nella prigione e l’attacco di circa 500 jihadisti. L’evento ripete un copione utilizzato all’atto della costituzione dell’IS in Iraq nel 2012: quello di attaccare le prigioni per ri-arruolare combattenti sperimentati.
Allora, tale strategia ebbe grande successo. Nel caso della prigione di Hasakah si è risolta in un disastro. Gli attaccanti sono stati respinti, lasciando sul terreno metà dei loro effettivi, grazie alla reazione rapida e efficace delle Sdf (Syrian Democratic Forces, eredi delle YPG-Unità di Protezione Curde).
Esse hanno in totale 100.000 effettivi, per il 60% curdi siriani. Nella loro reazione sono state appoggiate da cacciabombardieri Usa e da un numero imprecisato di soldati americani con veicoli corazzati Bradley (con le SDF operano in funzione anti-ISIS 1.000 militari Usa). Circa 3-400 jihadisti sono stati uccisi. Sicuramente taluni erano detenuti e 120 guardie carcerarie curde. Non più di 20-30 jihadisti sarebbero riusciti a fuggire. Fra i 3.500 – 5.000 prigionieri detenuti nella prigione vi erano circa 700 “soldati bambini” – i cd “cuccioli del Califfato” – usati dagli jihadisti anche come scudi umani.
Il secondo fatto che mi ha sorpreso riguarda l’entità degli ex-combattenti dell’IS e dei loro familiari prigionieri dei curdi. I primi sarebbero 12.000; i secondi ben 60.000. Almeno diverse centinaia sarebbero foreign figthers europei. Gli Stati di origine non vogliono riprenderseli. Temono che, per la loro liberazione, verrebbero effettuati numerosi attentati in Occidente nei loro territori.
È quanto era già avvenuto per i prigionieri di Guantanamo. Barack Obama non era riuscito a chiudere tale campo di detenzione proprio per tale motivo. Tutti siamo felici che i curdi perché facciano il “lavoro sporco”, dando loro un po’ di soldi e qualche arma. Essi devono accettare la situazione. Nelle Sdf sono presenti molto appartenenti al PKK e i curdi siriani temono di essere prima o poi attaccati dalla Turchia. Non possono quindi fare troppo i “difficili”.
L’altro evento, che ha fatto tirare soprattutto al Presidente Biden in respiro di sollievo (finora una cosa gli è riuscita bene!) è l’eliminazione del capo dell’IS, Hashimi al–Qurashi. Quarantacinquenne, iracheno di Mosul, non aveva il carisma del suo predecessore al-Baghdadi. Possedeva però una notevole capacità ed esperienza di pianificatore e organizzatore di attentati. Il fatto che sia stato eliminato vicino al confine turco nella provincia di Idlib, da dove proviene la massa dei mercenari inviati dalla Turchia non solo in Libia, ma anche in altri paesi africani, soprattutto nel Sahel, fa ipotizzare l’esistenza di qualche legame sotterraneo fra i vari vilayet ed emirati dell’IS con gli attivissimi Servizi segreti di Ankara. Forse se ne saprà di più quando saranno “letti” i cellulari e le memorie dei computers sequestrati dalle forze speciali Usa che hanno partecipato al raid. Per ora nessuna ipotesi può essere scartata.
Con la sconfitta e la perdita del territorio del Califfato, l’IS ha dovuto adattare la sua strategia. Non è più l’organizzazione monolitica e stabile come ai tempi del massimo splendore. Rimane beninteso il giuramento di fedeltà al comandante dei credenti (Bay’a) e l’obiettivo finale del califfato globale. Però non tende più ad impadronirsi di città e territori, in cui dar vita a un proto-stato, come aveva fatto al-Baghdadi. Inoltre, il nucleo centrale di potere si è indebolito, come d’altronde è avvenuto per al-Qaeda.
Anche per quest’ultima la priorità strategica non consiste più nel colpire il “nemico lontano”, cioè l’Occidente, rispetto a quello “vicino”, che rappresentava la priorità dell’ISIS, unitamente all’immediata proclamazione del califfato (per al-Qaeda obiettivo a lungo termine). Le priorità vengono definite dai capi locali, a seconda della situazione. Aumenta la resilienza all’antiterrorismo, ma il pericolo è complessivamente inferiore. Sono più improbabili attacchi massicci e sofisticati, come quelli alle Torri Gemelle.
Come europei, non ci resta che applaudire alle due sconfitte dell’IS. La sua metodica ricostruzione subirà una battuta d’arresto. Il cambio di capo comporta sempre gelosie e lotte intestine fra i vari possibili successori. Assorbirà parte delle loro energie e attenzione. Non saranno per qualche tempo dirette contro di noi. Poi le cose riprenderanno il loro corso.
Speriamo quindi che gli americani non si stanchino di farci da protettori! Con tutti gli sproloqui sulla “bussola strategica europea” non riusciamo a combinare poco o niente, se non suscitare il sarcasmo di Putin, che “gioca” con noi come fa il gatto con il topo. Per dividere l’Occidente non gli è necessario attaccare l’Ucraina. Gli basta continuare con il “balletto” dello schieramento di truppe, sperando che i suoi soldati non prendano il raffreddore nel freddo sarmatico.