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Il partito di Draghi, senza Draghi. Il mosaico di Fusi

Lavori

Il partito di Draghi minaccia di essere la riedizione di un approccio visionario che alla fine non convince gli elettori e disperde il patrimonio di autorevolezza di chi è chiamato a dargli gambe. Il mosaico di Carlo Fusi

Sono in corso vari tentativi per allestire un sorta di “partito di Draghi” da far esordire alle prossime elezioni politiche. Vi si impegnano forze di centro con ragioni sociali variamente riformiste e spezzoni di partiti che intendono capitalizzare la disgregazione che ha colpito schieramenti e singole leadership nel corso della battaglia per il Quirinale, conclusasi con la riconferma per altri sette anni di Sergio Mattarella.

Un partito di Draghi senza il medesimo, naturalmente. E già questo elemento ingarbuglia le cose. Inoltre è necessario che i soci fondatori per così dire gettino politicamente il cuore oltre l’ostacolo, lasciando i rispettivi campi di appartenenza dotandosi di un profilo identitario e di un programma che dovrebbe ricalcare le iniziative messe in atto dal presidente del Consiglio con la scrittura del Pnrr.

Sono anni che in tanti si affannano a creare uno specifico “partito che non c’è” e i nuovi epigoni si muovono nel solco di tentativi già esperiti, va ricordato, con scarso successo. In più i fan del partito di Draghi non sono riusciti a portare a compimento il trasloco del premier da palazzo Chigi al Colle, e si tratta di un fattore che pesa assai negativamente.

Tuttavia il punto politico è un altro. Non c’è dubbio che esista uno spezzone di elettorato tutt’altro che trascurabile che vede nella figura dell’ex presidente della Bce un esempio e uno stimolo per promuovere virtù di cui la politica nel suo insieme avrebbe ed ha gran bisogno: serietà, autorevolezza, competenza, prestigio. Caratteristiche che SuperMario possiede in forte misura e che un Paese serio dovrebbe considerare come carburante fondamentale e irrinunciabile per la crescita. Quella di Draghi è una leadership costruita fuori dai recinti del Palazzo e può diventare l’input giusto per una complessiva rigenerazione delle forze politiche. È a questo serbatoio elettorale inespresso e privo di rappresentanza politica che le nuove pattuglie di volenterosi guardano con malcelata cupidigia.

Tuttavia per uno dei tanti paradossi che contraddistinguono il confronto politico italiano, il partito di Draghi già c’è ed opera con successo. È formato da quella maggioranza di larghe intese che ha accompagnato e valorizzato la decisione di Mattarella di affidare a Draghi il compito di formare un governo capace di affrontare sia l’emergenza Covid che quella economica. Una coalizione spuria, formata da partiti che in altri passaggi starebbero su fronti contrapposti ma che hanno deciso di unire le loro energie per consentire al Paese quello scatto in avanti necessario per riprendere la strada dello sviluppo.

Questa maggioranza che per comodità possiamo chiamare bipartisan o quasi, è l’abito che meglio di tutti si confà alla figura dell’attuale capo dell’esecutivo. Immaginare di formarne una necessariamente e parecchio più ristretta rischia di rappresentare un esercizio velleitario. In altri termini il partito di Draghi in via di allestimento dovrebbe essere in grado di ripresentarsi dopo il lavacro elettorale per riprendere il cammino e l’opera che le elezioni inevitabilmente sospendono. Ma dopo che si sono chiamati milioni di elettori alle urne per esprimere il loro orientamento politico è immaginabile bypassare quel tipo di pronuncia per reinsediare un supertecnico alla guida dell’esecutivo? E il capo dello Stato potrebbe riproporre, nonostante gli affanni di partiti e coalizioni, una soluzione che tanti proprio nei partiti hanno vissuto me una specie di commissariamento della politica?

Il dramma del sistema italiano è quello di un transizione che ciclicamente assume le stesse forme (vale ricordare il tentativo di Napolitano con Mario Monti) ma non si conclude mai. Un supplizio di Tantalo 2.0. Il partito di Draghi minaccia di essere la riedizione un approccio visionario che alla fine non convince gli elettori e disperde il patrimonio di autorevolezza di chi è chiamato a dargli gambe. Il discorso vale in presenza di qualunque legge elettorale si voglia allestire: e a maggior ragione se poi resta quella che c’è, eventualità non peregrina.

Meglio sarebbe concentrarsi affinché l’anno pre-elettorale in corso non disperda i risultati già raggiunti. Le larghe intese hanno funzionato e l’hanno fatto sotto la guida di Draghi. Lasciare illanguidire per interessi di parte un simile tesoretto sarebbe una sciagura. Il vero partito di Draghi è quello che fa le cose che promette. Terreno sul quale le forze politiche italiane si sono sempre impegnate poco e male.

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