Intervista a Toomas Ilves, presidente dell’Estonia per due mandati dal 2006 al 2016. Conosco Putin, vuole ricreare un impero e vendicare l’Urss. Ucraina? Lascerà lì le armi e porterà via i soldati. L’Ue ha le armi spuntate, sul digitale troppo masochismo. E l’Italia…
“Fidatevi: ne sappiamo qualcosa”. Toomas Hendrik Ilves parla di Vladimir Putin come si parla di una vecchia conoscenza. Lo ha incontrato in pranzi, cene e vertici nei dieci lunghi anni in cui è stato presidente dell’Estonia, uno dei Paesi europei più esposti alla pressione di Mosca. Oggi l’ex repubblica satellite è un bastione della Nato nella crisi che vede stanziati non lontano il confine dell’Ucraina 150mila soldati russi e l’ombra di un’invasione aleggiare su Kiev.
Ilves, a che gioco gioca Putin?
Putin vuole stabilire una legacy inserendosi sulla scia di Pietro il Grande e Caterina. Ha vissuto il collasso dell’Unione sovietica come una tragedia personale ed è convinto che la Russia abbia una vocazione imperiale.
Cosa vuole davvero?
Finora ha avanzato richieste irrazionali. Chiede che la Nato giri le lancette dell’orologio indietro fino al 1997. Ma chi sta minacciando l’Ucraina con un’armata?
Per il Cremlino un’adesione dell’Ucraina alla Nato sarebbe inaccettabile.
Chiunque sa che l’Ucraina non è e forse non sarà mai un membro della Nato. Il trattato parla chiaro: per accettare un nuovo membro serve una revisione che richiede il via libera di tutti e trenta i Paesi, improbabile. L’allargamento della Nato di cui parla Putin semplicemente non c’è. Le sue richieste sono irricevibili.
La Nato sta giocando bene le sue carte?
Tre anni fa Macron l’ha definita cerebralmente morta, mi sembra vero il contrario. Sta funzionando, e non solo grazie alla spinta anglosassone. La Francia ha inviato jet da combattimento in Romania, la Danimarca in Lituania. Temo che Putin sia stato consigliato male. Lo stesso linguaggio usato dal ministero degli Esteri, il più sofisticato apparato del governo russo, conferma il mio sospetto.
L’Italia può fare la sua parte?
L’Italia è un Paese convintamente atlantista, ma proprio come l’Austria o la Germania fa molti soldi con la Russia, ne è riprova il recente incontro degli amministratori delegati italiani con Putin. La Russia prova in ogni modo a rendere innocui i Paesi Nato. Un giorno incontra gli industriali, un altro dà soldi ai sovranisti, sono tutti modi per creare divisioni.
Torniamo allo stallo ucraino. A questo punto Putin può fare davvero marcia indietro senza averne un danno di immagine?
Per un governo autoritario come quello russo, che ha il pieno controllo dei media, trovare uno spin adatto è un gioco da ragazzi. Dubito che Putin si preoccupi della sua reputazione in Occidente. Secondo un sondaggio recente, solo il 3% dei russi crede che l’escalation in Ucraina sia sbagliata. Non serve aggiungere altro.
Per cosa opterà alla fine Mosca?
Vedo due soluzioni probabili. La prima è una guerriglia cyber che abbiamo già visto in azione altrove, in Estonia ne sappiamo qualcosa. Nell’analisi digitale forense ci vogliono settimane se non mesi per scoprire i responsabili, i russi sono bravi. La seconda: un attacco di entità ridotta. Poi una ritirata delle truppe, ma il materiale resterà lì: artiglieria, carri armati, sistemi missilistici: non c’è bisogno di tenere al gelo 150mila soldati.
C’è chi vede nella crisi ucraina il primo banco di prova dell’autonomia strategica europea. Come sta andando?
Come primo test il risultato non è male: siamo talmente autonomi che nessuno si è accorto di noi, e infatti la Russia parla solo con la Nato e gli Stati Uniti.
Il piano Macron fa acqua?
Non è solo colpa di Macron. Anni fa abbiamo avuto un’occasione per contare, quando con i Trattati di Lisbona è nata la Pesco. E invece si è deciso di non sviluppare capacità militari. Così oggi ci ritroviamo in mano un non meglio definito “compasso strategico”.
Quindi l’Europa non può fare niente?
Potrebbe fare molto. Per esempio aiutando economicamente l’Ucraina, che sta facendo i conti con una caduta libera della Rivne (la valuta nazionale, ndr). Agli aiuti militari è meglio che pensino altri. Noi dovremmo prepararci alla vera emergenza europea.
Sarebbe?
Un’ondata massiccia di rifugiati, non inferiore a quella che ha colpito l’Europa nel 2015 dall’Africa e dalla Siria. In Ucraina vivono 44 milioni di persone, il Paese confina con quattro Stati membri dell’Ue: Polonia, Slovacchia, Romania e Ungheria. Ma questa volta attraverseranno via terra, sarà più facile. E non è l’unico campanello d’allarme.
Che altro?
Dobbiamo rafforzare al più presto le nostre difese cibernetiche, siamo già in ritardo. La Brexit ha privato l’Europa di uno dei Paesi meglio equipaggiati, grazie all’alleanza dei Five Eyes e alla loro condivisione di intelligence. È tempo di lavorare a un più stretto coordinamento nella cybersecurity.
Non succede già?
Guardiamo il dito e non la luna. Piuttosto che concentrare le risorse su una forza militare di intervento rapido, l’Ue dovrebbe rafforzare la sua sicurezza nel dominio digitale. Russia, Cina, Iran, la lista dei Paesi che hanno sviluppato capacità impressionanti in termini di offensiva cyber si allarga di continuo.
Dall’Estonia c’è una lezione?
Il nostro è forse il Paese più digitale d’Europa. Siamo i primi a sapere che serve rafforzare le difese digitali europee, mi sembra che stiamo remando nella direzione contraria.
Perché?
Penso al Dma (Digital Markets Act), costruito sulla base di un forte pregiudizio anti-americano. Non entro nel merito, basta guardare la filosofia che c’è dietro: un sonoro schiaffo ai Gafa (Google, Amazon, Facebook, Apple). Giusto far pagare loro una quota equa di tasse, ma qui siamo all’autolesionismo. Per inseguire la competizione digitale del ventunesimo secolo, distruggiamo la sicurezza dei sistemi di comunicazione.
Si riferisce alla competizione cinese?
Soprattutto. Si fa un gran parlare di concorrenza europea, poi si accettano senza battere ciglio i sussidi del governo cinese ad aziende come Huawei. Abbiamo fornitori di livello come Nokia ed Ericsson che non usano scorciatoie. Qualcuno a Bruxelles dovrebbe farci caso.