I Paesi occidentali agiscono di rimessa, non possono far altro che attenderne le mosse. Resta loro, soprattutto, l’onere di scegliere di volta in volta come reagire, rischiando l’inefficacia o, al contrario, di aggravare l’escalation. All’Europa occorreranno grandi negoziatori, ottima diplomazia. Merce rara, a quanto pare, di questi tempi. L’analisi del professor Luciano Bozzo (Università di Firenze)
In Ucraina è calata la “nebbia della guerra”. L’espressione di Clausewitz rende bene l’idea di cosa accade nel momento in cui, dallo scambio di note diplomatiche, si passi all’altro linguaggio della politica, lo scambio dei colpi di cannone, per rimanere alle immagini del nostro. Adesso tutto diviene più incerto, confuso, poco o affatto prevedibile. Questo vale tanto per le forze impegnate sul campo quanto per tutti gli altri spettatori o protagonisti del conflitto. Nondimeno quanto sin qui accaduto non era e non è affatto incomprensibile, inspiegabile; tanto meno è frutto di “irrazionalità”, come pure è stato detto e scritto. È invece vero il contrario.
Putin ha portato a compimento il suo disegno con un’azione militare diretta, che per le sue caratteristiche e dimensioni mostra di essere stata preparata da molti mesi. Questo nel quadro di una strategia pluriennale senza reale soluzione di continuità concettuale, le cui tappe ad alta intensità di violenza sono evidenti: 2008 Georgia; 2014 Donbass-Crimea; 2020 Nagorno-Karabakh; 2022 Ucraina.
Quella in Ucraina è stata ed è un’azione progressiva, fatta di componenti e mezzi diversi. Fino a ieri la violenza, componente ultima, più radicale e pericolosa di questa strategia, era minacciata. Adesso è messa in atto. Putin ha varcato un limite netto, ha compiuto la scelta di Cortés. Il condottiero spagnolo, sbarcato sulla costa del Messico, incendiò le proprie navi. Decise così di precludere a sé stesso e ai propri uomini ogni possibile via di fuga, qualsiasi opzione che non fosse quella di andare avanti, sfidare l’impero azteco e conseguire il proprio obbiettivo di conquista. Anche Putin ha bruciato le navi, tagliato i ponti; anzi, ha dato fuoco all’erba alle sue spalle col vento che soffia dietro di lui. Una fase si è chiusa.
Chi s’illudeva che tutto quanto dichiarato, fatto e mostrato fino a due giorni or sono fosse solo un bluff, una dimostrazione di forza o uno strumento di pressione, dovrebbe interrogarsi sulle ragioni del clamoroso errore di valutazione e capire finalmente la logica del “gioco strategico” in atto per trarne le conseguenze. Se il leader russo già non poteva tornare indietro prima deve andare avanti adesso. Si è messo nella condizione di doverlo fare. Che questa modalità d’azione gli sia familiare lo avremmo forse dovuto sapere. “Meglio non cercare lo scontro senza estrema necessità, ma se il guaio capita bisogna agire come se non ci fosse una via di fuga. Non bisogna mai cercare di intimorire qualcuno a parole, semplicemente agire con la forza.” Sono parole di Putin, un’affermazione riportata tra virgolette nella sua biografia scritta da Nicolai Lilin.
Ha proceduto per gradi, ha cercato di conseguire l’obbiettivo con azioni a crescente intensità di violenza; infine, si è precluso la via di fuga “semplicemente” agendo con la forza. Alla cancelliera Angela Merkel è attribuito un giudizio su Putin pronunciato nel 2014, dopo l’annessione della Crimea: un leader che applica metodi dell’Ottocento al XXI secolo. Il giudizio rivela preoccupazione e una qualche ingiustificata sufficienza, ma coglie il punto: il leader russo vede la politica estera del suo Paese e quella internazionale in un’ottica diversa rispetto alle controparti occidentali. Questo spiega gli errori di valutazione sin qui fatti: l’incapacità di mettersi nei suoi panni, di vedere il mondo con gli occhi suoi e di tanti altri russi.
E adesso, che fare? È evidente che nella lotta per la libertà (d’azione) che è l’anima stessa di ogni interazione strategica la Russia gode di un grande vantaggio: da molto tempo ha assunto l’iniziativa e la mantiene. I Paesi occidentali agiscono di rimessa, non possono far altro che attenderne le mosse. Resta loro, soprattutto, l’onere di scegliere di volta in volta come reagire, rischiando l’inefficacia o, al contrario, di aggravare l’escalation.
Irrealistico pensare che Putin intenda occupare l’intera Ucraina: non ha la volontà e neppure i mezzi per farlo. Irrealistico sperare che il Paese diventi un nuovo Afghanistan russo, grazie allo sviluppo della guerriglia interna: non ci sono le condizioni. Putin taglierà il Paese “a fette”, proseguendo nella progressione, e le “mangerà” con modalità diverse, a seconda delle circostanze.
L’intero Donbass è già tagliato, dovrà essere digerito. Si tratta di vedere se ad esso si aggiungeranno altre fette, ipotesi meno probabile. L’obbiettivo ultimo è tuttavia il “regime change” a Kiev, come dimostra ciò che sta accadendo sul campo in queste ore. Altrimenti le operazioni militari potrebbero concentrarsi a oriente del Dniepr, linea di demarcazione chiara, non ambigua, evidente alle parti.
E ora che fare? Raggiunti gli obbiettivi operativi e politici prefissati è assai probabile, avendo a mente la sua condotta passata, che Putin offrirà un’apertura, avrà necessità di digerire il boccone grosso. Le sanzioni economiche, per quanto dure, non produrranno gli effetti sperati. Se non altro perché la strategia russa di lungo periodo le ha messe in conto e il leader ha avuto tutto il tempo per predisporre le contromisure possibili. L’Ucraina, comunque uscirà dalla guerra, è “persa”: l’ipotesi di un suo pur lontano ingresso nella Nato definitivamente tramontata. Discorso analogo dovrebbe valere per la Georgia. È tuttavia quantomeno prudente pensare che il disegno strategico di Putin non sia affatto compiuto, anzi, che il prevedibile successo lo incoraggerà a proseguire lungo la strada percorsa con successo.
Per il futuro non resta altra scelta che il pragmatismo, mirare all’intelligente compromesso, con un occhio a Nord, al Baltico. Anche questo, come ogni altro conflitto, è un mix di obbiettivi inconciliabili e interessi comuni tra le parti. Anche Putin potenzialmente ha molto da perdere nel lungo periodo. All’Europa occorreranno grandi negoziatori, ottima diplomazia. Merce rara, a quanto pare, di questi tempi.