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Putin, Xi e le Olimpiadi della discordia

Dallo smacco nazista di Jesse Owens a Berlino fino all’allarme terrorismo di Monaco. Le Olimpiadi sono sempre una radiografia del mondo. Quella di Pechino si apre con un patto autoritario che vede l’Europa sullo sfondo. Il commento di Stefano Stefanini

Per due settimane le Olimpiadi ricompattano un mondo diviso. Ma non pretendono neppure di nasconderne le fratture. Anzi le mettono a nudo. I temi dell’elegante e tecnologica cerimonia di apertura erano pace, armonia e equilibrio. La pace è in bilico in Ucraina, l’armonia disturbata dalle diserzioni diplomatiche, l’equilibrio scosso dall’alleanza russo-cinese.

Le Olimpiadi sono sì un momento magico dello sport; riuniscono sì la comunità mondiale ma ne tradiscono anche i malesseri. Fu così a Berlino nel 1936, trionfo del nazismo scippato da Jesse Owens; a Monaco nel 1972, dove irruppe il terrorismo; a Mosca nel 1980 e Los Angeles nel 1984, fra boicottaggio americano e contro-boicottaggio russo, ultimi fuochi della guerra fredda.

Venerdì scorso a Pechino, mentre gli atleti sfilavano nel gelo subartico, un’altra competizione, non per gli ori olimpici ma per il potere mondiale, veniva apertamente dichiarata sugli spalti. La “nuova era nelle relazioni internazionali” annunciata da Xi Jinping e Vladimir Putin è quella di un confronto a tutto campo con l’Occidente. Dall’Artico ai valori. Cinquant’anni fa Henry Kissinger isolò Mosca. Adesso il gioco delle tre carte si rovescia e cerca di isolare Washington.

All’indomani dell’apertura dei giochi della 24ma edizione dei Giochi Invernali, le grandi potenze sono in gara fra loro; altri sgomitano per posizionarsi nel grande gioco internazionale. Le spaccature sono nette. Presenze e assenze a Pechino fanno da cartina di tornasole. Cina e Russia uniscono le forze per spodestare l’America, affaticato detentore del titolo. Sono in corsa solo loro. Salvo miracoli, l’Europa disunita non è in pista per il podio. Tutta De Coubertin e poco Michael Jordan si accontenta di partecipare.

Spiazzata fra sfida russo-cinese e agonismo americano, strattonata da una parte e dall’altra, l’Europa cerca acrobaticamente di bilanciare alleanza con Washington e rapporti, prevalentemente economico-commerciali, con Mosca e Pechino. Così la grande maggioranza degli europei non aderiscono al boicottaggio diplomatico delle Olimpiadi di iniziativa Usa, ma leader e ministri dei Paesi Ue si guardano bene dal fare atto di presenza a Pechino durante la cerimonia di apertura. Unica eccezione il presidente polacco, Andrzej Duda.

Rappresentanti di governo Ue verranno, ma dopo, di medio calibro, alla chetichella, in ordine sparso. Nel frattempo, col boicottaggio tacito della cerimonia di apertura gli europei sono riusciti a tener buoni gli americani, non offendere i cinesi – probabilmente scontentare tutti e due. Ma dal momento che i presidenti cinese e americano denunciano non solo gli Usa ma anche la Nato diventa più difficile cacciare la testa sotto la sabbia. Quasi tutti gli europei sono dentro l’Alleanza. La scelta di campo è già stata fatta. Cambiarla? Senza Usa chi prende in mano la (nostra) sicurezza? Neanche Emmanuel Macron pensa di fare a meno della Nato.

La navigazione fra Scilla americana e Cariddi russo-cinese è più agevole per medie potenze di peso regionale ma fuori dai due teatri principali di confronto: quello euro-atlantico, vedi Ucraina, e quello indo-pacifico, vedi Taiwan. A maggior ragione si può rimanere in buoni rapporti su entrambi i versanti se i leader vantano affinità autocratiche con i Putin e Xi ma si fanno forti della valenza strategica dei loro Paesi per Washington.

A confermarlo basta una rapida carrellata degli infreddoliti presenti sulle tribune del “Nido d’Uccello”, stadio nazionale di Pechino. L’improvviso interesse per i giochi invernali era un atto di riguardo verso una Cina, diventata un partner economico essenziale, quant’anche ingombrante, con prudente presa di distanza dalla posizione di confronto americana.

La rivendicazione di versioni nazionali à la carte di democrazia da parte di due presidenti a vita, russo e cinese, dev’essere stata musica per molte di quelle orecchie infreddolite. Ha un’eco diversa in Europa e in Italia che nel secolo scorso ne hanno conosciuto, sulla pelle, tragici esempi.

Russia e Cina contemporanee offrono sistemi efficienti, specie quello cinese, e un volto spesso benevolo ma che sono autoritari non democratici. I testi di diritto costituzionale insegnano a declinare diversamente la democrazia, ma c’è una soglia di libertà fondamentali e rispetto dei diritti umani oltra la quale si esce dalla democrazia per entrare nell’autocrazia. Indulgere al relativismo è uno schiaffo alla realtà.

Vladimir Putin e Xi Jinping hanno servito l’aperitivo dei Giochi olimpici invernali con la lunga dichiarazione di “amicizia senza limiti” che riflette più un’inimicizia verso l’Occidente e pratiche ma importanti convergenze che non un legame identitario fra due Paesi e popoli che si sanno diversi. A differenza della Nato è un’alleanza di stampo ottocentesco che si può disfare come si è fatta.

Diventa però la nota dominante di una nuova fase internazionale. Segna la fine del trentennio della globalizzazione pacifica. Lo spartiacque fu allora il crollo del Muro di Berlino e l’implosione dell’Unione Sovietica. Il dopo guerra fredda mise in sordina la costante delle relazioni internazionali, la competizione fra grandi potenze. L’addomesticò. Adesso ritorna di scena apertamente.

Il dopo guerra fredda è finito. Non ne comincia necessariamente una nuova ma piuttosto un’aspra contesa internazionale, senza esclusione di colpi nell’invadere tecnologia, spazio informatico e social media, in un mondo tanto interdipendente quanto diviso.


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