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Il legame tra il raid in Siria e la crisi ucraina

Il mondo è concentrato sulla partita a scacchi lungo confine ucraino ed Europa orientale, ma intanto le forze speciali statunitensi hanno condotto un raid antiterrorismo su larga scala nel nord-ovest della Siria. E forse in parte anche questa operazione c’entra con il confronto aperto tra Usa e Russia

Mentre il mondo è concentrato sulla partita a scacchi lungo confine ucraino ed Europa orientale — dove gli Stati Uniti hanno annunciato l’arrivo di rinforzi in quella che Mosca definisce una mossa “distruttiva”, dopo averne inviati quasi centomila di soldati — le forze speciali statunitensi hanno condotto un raid antiterrorismo su larga scala nel nord-ovest della Siria. E forse in parte anche questa operazione, avvenuta durante la notte tra mercoledì e giovedì, c’entra con il confronto aperto tra Usa e Russia.

“La missione ha avuto successo”, ha detto l’addetto stampa del Pentagono in una breve dichiarazione: “Non ci sono state vittime americane. Ulteriori informazioni saranno fornite non appena saranno disponibili”. Di solito non si parla subito di queste attività a meno che non siano clamorose (l’eliminazione di Osama bin Laden, per dire), ma forse c’è una coincidenza temporale che ha reso necessaria la comunicazione: nei giorni scorsi il ministero della Difesa russo ha comunicato a sua volta di aver iniziato missioni di pattugliamento aereo congiunto con le forze siriane.

Serve allargare il discorso. I russi sono decollati dal loro quartier generale siriano di Hmeimim, i siriani da una base vicino Damasco, e hanno sorvolato la costa mediterranea fino alle alture contese del Golan. L’obiettivo è creare interoperabilità tra le due aviazioni, dimostrare la capacità di controllo territoriale russa, far percepire che per Mosca la Siria è un punto di lancio verso l’Europa e il Mediterraneo. Tutto mentre nel bacino stanno entrando navi della Flotta del Pacifico da Suez e altre della Flotta del Nord hanno da poco doppiato il Canale di Sicilia. Si riuniranno per esercitazioni proprio davanti alla Siria e poi nel Mar Arabico.

Gli Stati Uniti con il raid siriano comunicano altrettanta capacita operativa: mentre le tensioni nell’Europa orientale crescono, Washington ha schierato due gruppi da battaglia nel Mar Cinese Meridionale, ha inviato rinforzi agli Emirati Arabi Uniti finiti sotto attacco dei ribelli yemeniti Houthi, ha inviato forze speciali in Siria. Ossia, si muove contemporaneamente su teatri diversi e con complessità diverse.

Tanto più: il blitz in Siria si è svolto nella provincia nord-occidentale di Idlib, controllata dai ribelli e accerchiata dalle forze del regime — che da sei anni e mezzo si muovono sotto diretto coordinamento russo. Il Pentagono non ha fornito dettagli su chi sia stato l’obiettivo del raid, ma si sa che Idlib è la patria di diversi top operativi di al-Qaida. I terroristi potrebbero essere stati parte di un doppio obiettivo: queste operazioni sono studiate da tempo attraverso minuziose attività di intelligence perché di solito i leader jihadisti si muovono come fantasmi protetti in territori di cui conoscono ogni angolo, dunque se è scattato il “go” la ragione è tecnico-operativa, ossia era il momento giusto. Ma con un po’ di malizia non si può escludere che la decisione di agire sia anche connessa al contesto: dare una lezione di forza e capacità ai russi in un’area in cui faticano a muoversi perché quei leader jihadisti mantengono la posizione nell’ultimo baluardo di resistenza anti-Assad.

La missione potrebbe aver avuto anche i suoi problemi: un funzionario statunitense ha detto anonimamente alla Associated Press che uno degli elicotteri che trasportava gli operativi ha avuto un guasto meccanico durante il raid (possibile anche sia stato colpito) ed è stato fatto esplodere quando era a terra — come successe la notte dell’eliminazione di Osama.

L’operazione statunitense è stata compiuta anche incrociando un altro momento particolare, certamente più collegato al blitz del confronto con i russi: lo Stato Islamico nelle ultime settimane e mesi ha lanciato una serie di attacchi nella regione, tra cui un assalto di dieci giorni alla fine del mese scorso per prendere il controllo di una prigione nel nord-est della Siria. Esperienza insegna che non si può perdere contatto col dossier. La prigione di Gweiran, nota anche come al-Sinaa, è ora completamente sotto il controllo delle Forze Democratiche Siriane (Sdf), il gruppo combattente a guida curdo-siriane che è alleato degli americani nella lotta all’Is, ma il prezzo della battaglia è stato alto: più di 120 tra Sdf e lavoratori dell’impianto sono rimasti uccisi per evitare il peggio.

Ossia una fuga di massa degli oltre tremila detenuti dello Stato Islamico: chi segue la storia del Califfo ricorderà che la liberazione di prigionieri dalle carceri ha sempre coinciso con fasi d’ascesa del gruppo — che deve al contesto carcerario anche parte della sua organizzazione, quando i fondatori si scambiavano messaggi durante la reclusione a Camp Bucca.

Attacchi aerei americani e advisor a terra hanno aiutato le Sdf. Il tentativo di evasione, che molto probabilmente sarebbe dovuto essere l’inizio di un piano più vasto, è stata la più grande operazione militare del gruppo estremista da quando nel 2019 l’Is è stato sconfitto nella sua dimensione statuale dalle forze della Coalizone internazionale a guida americana (di cui è parte anche l’Italia). Un successo di cui i russi hanno beneficiato intestandosi la narrazione della vittoria, quando invece il loro impegno è stato rivolto non tanto alla lotta al Califfato quanto alla salvaguardia del regime siriano.

Sui social network i residenti e gli attivisti della zona hanno descritto il raid notturno a Idlib come la più grande operazione dall’uccisione nell’ottobre 2019 del leader del gruppo Stato Islamico Abu Bakr al-Baghdadi. Testimoni sostengono che durante lo scontro a fuoco con i terroristi ci sarebbero state vittime civili. Rumors dal posto indicano il nuovo leader dell’ Is, Abu Ibrahim al-Hashimi al-Qurayshi, come tagert della missione.

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