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Perché Macron chiude la missione in Mali

Non c’è dialogo con Bamoko, che si affida ai contractor russi, e per Macron ci sono pressioni elettorali. L’Ue nel complicato rapporto con l’Africa

L’idea è di muovere le forze in Costa d’Avorio per continuare a mantenere una presenza stabile nel Sahel e direttamente operativa per la sicurezza della regione. E anche l’Eliseo cerca di comunicare la scelta anche come un miglioramento tecnico, la ragione di fondo sta nel fatto che la Francia ha perso contatto con il Mali (e con il Ciad), centri nevralgici del dispiegamento saheliano su cui Parigi ha nel corso degli anni coinvolto altre nazioni europee. Tra queste l’Italia, che fornisce 200 uomini alla “Task Force Takuba”, ampliamento multinazionale dell’operazione “Serval”, partita nel 2013 per aiutare il Mali dopo un golpe, continuata sotto il nome “Barkhane” ed estesa a tutta la regione, e da oggi, giovedì 17 febbraio ufficialmente conclusa in Mali. Con essa probabilmente anche Takuba e forse Eutam, missione con cui l’Ue addestra le forze locali.

Emmanuel Macron ha usato il contesto internazionale del mini-vertice sul Sahel convocato mercoledì 16 all’Eliseo (presenti alcuni leader regionali, gli europei Charles Michel e Ursula von der Leyen il presidente del Consiglio Mario Draghi) per dire che non ci sarà un ritiro immediato, ci vorranno almeno sei mesi per smobilitare le truppe, ma adesso la missione in Mali non è più sostenibile. Finito nel vortice golpista (due colpi di Stato nel giro di meno di due anni) Bamako è guidata da una giunta militare che recentemente ha fatto una scelta netta: affidare la sicurezza del Paese — trafitto dalle faide jihadiste e da gruppi armati organizzati di vario genere, specchio della regione — ai contractor russi del Wagner Group, mentre Parigi (e non solo) proponeva un incremento del contingente Minusma, i Caschi Blu nell’Onu presenti nel Paese.

Qualche diplomatico europeo dice in confidenza che “il Mali è stato l’Afghanistan di Macron”, ossia un impegno militare lungo e con pochi risultati (come con i Talebani contro cui gli Stati Uniti erano intervenuti in Afghanistan e poi tornati al potere nel momento del ritiro americano, anche in Mali si è verificata una dinamica simile: Parigi è intervenuta per stabilizzare un golpe ed esce dal Paese con una giunta golpista al comando). Ma la decisione del ritiro arriva in un momento critico per Monsieur Le President, che si presenterà per una riconferma alle elezioni di aprile per un nuovo mandato. In Mali sono morti 48 dei 53 soldati francesi vittime di Barkhane: e nel 2022, in Francia come altrove in Occidente, le vittime di guerra hanno un peso sull’opinione pubblica, sull’elettorato.

Con le elezioni francesi che incombono la priorità di Macron è però anche quella di garantire che qualsiasi ritiro non inviti a paragoni con la caotica partenza americana dall’Afghanistan lo scorso anno. “Dobbiamo reinventare il nostro partenariato militare con questi Paesi”, ha detto una fonte presidenziale francese alla AFP: “Non si tratta di spostare altrove ciò che si fa in Mali, ma di rafforzare ciò che si fa in Niger e di sostenere maggiormente il Sud”. Risposta proattiva dal presidente ivoriano (presente alla cena di lavoro di mercoledì sera) che ha ringraziato per il ruolo svolto da Barkhane e Takuba ma ha ricordato che “ora è nostro dovere” organizzarci da soli. Ossia ha sostenuto la volontà di disimpegno di Parigi — spinta anche da un momento in cui nella regione, a cominciare dal Mali, si stanno diffondendo sentimenti contrari alla presenza francese, anche frutto di campagne di destabilizzazione e disinformazione guidate dalla Russia.

Il presidente francese ha usato anche l’incontro al Cremlino con Vladimir Putin per parlare della situazione in Africa. L’ormai noto tavolo che divideva i due leader (per ragioni di sicurezza legate alla diffusione del SarsCov-2) è un’ottima rappresentazione delle distanze, non causale nell’iconografia dell’incontro che Mosca ha voluto diffondere: Putin dice che la Wagner è una società privata e segue interessi privati, ma ci sono molte ricostruzioni che portano l’Occidente a dire che quei contractor sono un’arma che il Cremlino usa per compiere il lavoro sporco. Distanze. “Non capisco come Putin possa non essere al corrente della situazione”, ha detto il ministro degli Esteri francese, Jean-Yves Le Drian, al Financial Times, ricordando che quei contractor si muovono con aerei russi, usano armi russe e che il Cremlino ha a disposizione molto informazioni su ciò che accade nel proprio paese.

La questione è tutt’altro che indipendente dalle dinamiche che stanno dietro all’assembramento militare che Putin ha voluto attorno ai confini ucraini come leva per negoziare future coabitazioni in aree delicate di influenza — siano esse l’Europa orientale e l’Artico, ma anche il Mediterraneo allargato e perché no l’Africa. “Tutto si tiene”, commenta un diplomatico che fornisce spunti sul contesto in forma confidenziale. Tant’è che lo stesso Le Drian — capo di una diplomazia che ha sempre cercato il dialogo con Mosca, ed ex ministro della Difesa francese che invece ha un approccio più severo nei confronti della Russia — aggiunge all’FT che “Putin ha provato a dividerci (l’Ue e la Nato, semplificando l’Occidente, ndr) ma invece ci ha uniti”.

Nei giorni in cui Macron annuncia l’uscita dal Mali l’Unione europea parla con l’Africa, il continente del futuro su cui Bruxelles vuole spingere investimenti attorno ai 150 miliardi di euro attraverso il Global Gateway, che può diventare l’aiuto con cui creare strumenti per promuovere le catene di valore manifatturiero Africa-Europa. Mezzo con cui superare le attività della Russia e soprattutto della Cina. Ma è evidente che questo genere di investimenti diventa complicato in un contesto instabile — e l’Africa ha dimostrato di aver avuto vulnerabilità su questo aspetto, basta pensare alla serie di colpi di stato del 2021. Contesti su cui invece la Russia come la Turchia — e in parte la Cina — si muovono più libere, senza i vincoli etici e morali delle democrazie. Un fattore alla base di tutti gli impegni europei (militari, economici, culturali) in Africa come altrove.


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