Una glaciale visione del vuoto si presenta all’elettorato che, almeno sulla carta, dovrebbe essere maggioritario, ma privo di coesione per la sistematica opera di demolizione che i tre partiti della coalizione si sono testardamente ingegnati a portare a compimento. Gennaro Malgieri spiega cosa occorre alla destra che verrà…
Finalmente, stremati da contorsioni incomprensibili, tanto Matteo Salvini che Giorgia Meloni hanno certificato il dissolvimento del centrodestra. Sul quel campo, privo di idee, prospettive e visioni, attraversato da corsari della politica, una glaciale visione del vuoto si presenta all’elettorato che, almeno sulla carta, dovrebbe essere maggioritario, ma privo di coesione per la sistematica opera di demolizione che i tre partiti della coalizione si sono testardamente ingegnati a portare a compimento fin dal giorno dopo le elezioni del 2018.
Poteva continuare ad esserci già allora un centrodestra organico quando, senza curarsi delle conseguenze, Salvini abbandonò la nave che aveva guidato per allearsi con i nemici di sempre, vale a dire i Cinquestelle, movimento lontanissimo dalla Lega stessa? Entrambi, tuttavia, erano uniti dall’arrogante pretesa di costituire una maggioranza parlamentare sgangherata e fondata sul più becero populismo tra quelli manifestatisi negli ultimi anni in Europa. I primi con la vocazione degli incompetenti a sfasciare tutto il possibile in un delirio demagogico spaventoso; la seconda lusingata dai lustrini del potere e incurante che i suoi compagni di viaggio restassero inutilmente all’opposizione.
Finì allora il centrodestra. Poi la crisi si aggravò nell’estate dell’anno successivo quando Salvini buttò a mare il governo del quale faceva parte immaginando di potersi prendere tutto ed essere l’uomo solo al comando. Rimediò in Parlamento e fuori delle sonore sberle che se avesse avuto un po’ d’amor proprio lo avrebbero indotto al ritiro. Ma l’umiltà politica Salvini non sa neppure che cosa sia. Da allora incominciò la competizione aperta e perfino volgare in certi momenti, con le altre componenti del centrodestra. Acuita dalla divisione in Europa dove i leghisti scelsero di stare con populisti e sovranisti radicali, mentre Fratelli d’Italia si accasò presso i conservatori riformisti conquistando la leadership del gruppo a Strasburgo e Forza Italia rimase dove era sempre stata, nel Partito popolare europeo.
Con una faccia tosta ammirevole, bisogna dire, la coalizione che già non c’era più, litigando un giorno sì e l’altro pure, riteneva che le differenziazioni e le ambizioni interne che ne minavano l’unità fossero una ricchezza e non l’esplicitazione eloquente, palese, indiscutibile di un fallimento politico e, per ciò che concerne i leader, anche umano.
Si è così arrivati al Big Bang dell’elezione del capo dello Stato. L’occasione è stata propizia per mostrare, a chi non se ne fosse ancora accorto, della inanità di una formazione storica, che comunque nulla aveva più delle radici che aveva fatto marcire, incapace di promuovere un’azione coordinata e condivisa in grado di trascinare il Parlamento su un candidato che potesse raccogliere i consensi necessari. Quel che Salvini è riuscito a fare contro la sua stessa parte politica e quel che hanno mostrato di voler fare in un futuro prossimo, profittando di un’occasione solenne, i berlusconiani non è raccontabile in un articolo. Basta del resto leggere i giornali delle scorse settimane per rendersi conto di come fossero fragili le fondamenta del centrodestra nel quale a parte la coerente posizione, che le va riconosciuta, della Meloni, si è lavorato per organizzare un deserto di macerie dal quale nessuno degli interessati avrà la forza, in tempi ragionevoli, per rimuoverle ed inventarsi una “cosa “ nuova, piuttosto che una “fusione a freddo” a puro scopo elettorale.
La confusione domina sovrana (il solo “sovranismo” che è rimasto ai reprobi di una rivoluzione che ha animato i loro sogni). Salvini, come al solito, è il più attivo ad alimentarla. Un giorno s’inventa la federazione dei soggetti che ha distrutto; un altro qualcosa che assomigli al partito repubblicano americano; infine si rende conto che sciogliere le file è la sola opzione possibile che ha a disposizione. E lo sottolinea mentre combatte con il Covid. La quarantena non gli fa perdere il buonumore: immaginare una linea politica possibile fondata sul nulla (basta leggere le cronache per capirne le intenzioni) è peggio di una barzelletta mal riuscita. Dove voglia portare la Lega e con chi allearsi resta un mistero.
E nel mistero s’infittiscono le ipotesi di scenari che finiranno per travolgere i soggetti sparpagliati di quello che fu il centrodestra, dalla riforma elettorale in senso proporzionale, alla costruzione di un centro, per quanto bislacco, che porterà tutti i “cespugli” non compatibili con la destra e con la sinistra ad unirsi per tirar fuori il coniglio dal cilindro dopo le elezioni, al ristabilimento di una dialettica comprensibile e dunque non litigiosa dalle parti del Pd.
Il capolavoro della resa del centrodestra di fronte alla sua manifesta incapacità sarà la conta non dei vincitori, ma dei migliori perdenti. Con ogni probabilità la Meloni arriverà prima, ma avrà poco di cui gioire se non inizia ad immaginare fin d’ora una destra-destra di stampo nazional-conservatore, fortemente identitaria, che allarghi la sua base del consenso intorno a temi come il presidenzialismo, la partecipazione, la cogestione, la lotta ai distruttori della natura, la ferma opposizione al globalismo ed al pensiero unico. E poi al recupero di chi ha militato a destra nel passato prossimo ed ora è ai margini o addirittura fuori dell’agone politico.
Occorre, insomma, alla destra che verrà uno spirito nuovo per tentare di rafforzare i già ragguardevoli risultati ottenuti. Se qualcuno nel partito della Meloni dovesse nutrire illusioni circa la ricomposizione del centrodestra è meglio che faccia i bagagli e si avvii verso l’affollata corte centrista. Il luogo dove tutto è possibile, dove si può stare con chiunque, ma non da soli, dove la politica è declinata nel gestire il potere, senza un progetto, nell’assenza più totale di un pallido ideale.