Da Bruxelles fanno sapere che il testo finale sarà praticamente invariato: l’inclusione di gas e nucleare e i limiti previsti servono per innescare una transizione realistica. La vera chiave di volta è il ventaglio di opzioni tecnologiche: ecco perché
Mercoledì la Commissione europea firmerà la nuova tassonomia degli investimenti sostenibili, che promette di essere uno dei documenti più controversi del 2022. La bozza presentata in extremis nelle ultime ore del 2021 ha attraversato il periodo di consultazioni, oltre ad aver scatenato un’ondata di critiche per via dell’inclusione di gas naturale e nucleare. Dopo la firma, Parlamento e Consiglio avranno dai quattro ai sei mesi per rivedere il testo e votarlo.
I contenuti del documento non varieranno sostanzialmente rispetto alla bozza di fine anno. La commissaria europea per i servizi finanziari Mairead McGuinness ha spiegato a Politico che la Commissione si sta limitando a “mettere a punto” alcuni dettagli e che non riscriveranno il testo. Con buona pace di chi, tra gruppi ambientalisti e Stati membri, sta accusando Bruxelles di greenwashing.
Ci aspettavamo le critiche, ha spiegato l’irlandese, ma tant’è: quel testo non serve a incanalare gli investimenti quanto piuttosto a “classificare a quali condizioni crediamo che il nucleare e il gas possano essere accolti, con condizioni, nella categoria di transizione della tassonomia. Sta alla comunità degli investitori e a coloro che sono coinvolti in queste tecnologie decidere se utilizzare questi standard”.
In breve, la tassonomia è pensata per rendere molto più vantaggioso investire in un ventaglio di soluzioni tecnologiche che sono in linea con il piano di decarbonizzazione. Tuttavia, sta ai singoli enti e ai singoli Stati decidere quali soluzioni adottare. E questa flessibilità è tanto più necessaria per il periodo di transizione, in cui la messa a terra della transizione deve procedere linearmente e tenendo conto dei diversi contesti in cui avviene.
Soprattutto, il processo di transizione non deve trasformarsi in un disastro economico-sociale per via di costi troppo elevati e obiettivi troppo ambiziosi per essere raggiunti ragionevolmente. Se ciò avvenisse, saremmo punto a capo: gli elettori saranno svelti ad azzoppare la spinta verso le tecnologie rinnovabili. Che sono pulite ma ancora troppo meteoropatiche, carenti di accumulatori e non abbastanza pesanti nell’energy mix degli europei.
“Un piano energetico serio deve ruotare sullo sviluppo congiunto di fonti di energia fossile e rinnovabile”, ha riassunto su Twitter l’analista Gianclaudio Torlizzi; “puntare solo su eolico e solare, come chiede la grande finanza, ci manterrà all’interno di una condizione perenne di deficit di offerta e quindi di crisi energetica”.
Se il gas naturale serve per il salto ai gas verdi
“Accetto pienamente che il gas sia un combustibile fossile – non siamo ciechi su questo – ma è molto meglio dell’uso continuo di carbone sporco”, ha chiosato McGuinness. Sulla stessa linea, Carlo Stagnaro e Stefano Verde hanno analizzato per Rivista Energia i criteri molto stringenti entro i quali un investimento nel settore del gas naturale è considerato sostenibile.
“La presunta ‘apertura al gas’ in questa bozza sembrerebbe poco più di uno spiraglio rispetto alle necessità e potenzialità del settore”, scrivevano: ci sono limiti emissivi raggiungibili solo con tecniche di cattura e stoccaggio del carbonio o sostituendo il gas fossile con il biometano o l’idrogeno. Altre soluzioni limitano le ore e gli anni di operazione delle centrali a gas. Per giunta, tutti i nuovi impianti dovranno essere predisposti per funzionare con gas più verdi e prevedere di miscelarli al 30% già a partire dal 2026.
“Non siamo di fronte a un provvedimento ‘libera tutti’ per il termoelettrico a gas, ma a un’esenzione temporanea finalizzata a supportare e accelerare la delicata fase di transizione in cui ci troviamo, in particolare andando a sostituire fonti fossili più dannose”, spiegano gli autori, sottolineando come il destino delle centrali a gas col bollino di Bruxelles sia “intrecciato a quello del gas rinnovabile e alle prospettive di sviluppo dei gas verdi”.
Il “nodo” del nucleare
Il commento di McGuinness sul nucleare è stato molto più netto: trattasi di fonte energetica carbon free. La bozza, incardinata sul parere del Joint Research Centre (braccio scientifico della Commissione), subordina l’etichetta di sostenibilità allo stoccaggio sicuro delle scorie e impone di rispettare il principio no significant harm. Queste le premesse che hanno portato all’inclusione del nucleare nella tassonomia, senza limiti di tempo.
Ci sono tre punti da considerare prima di scagliarsi contro questa decisione, come hanno fatto diversi Paesi europei, che minacciano di denunciare la Commissione. Il primo è che l’inclusione del nucleare impatta soprattutto i Paesi che già se ne vogliono avvantaggiare. Nella fattispecie, la Francia, che genera il 70% della sua elettricità col nucleare ma deve gestire un parco di reattori sempre più vecchi, e i Paesi dell’Est Europa come la Polonia, generalmente dipendenti dal carbone, che intendono utilizzare il nucleare per sostituirlo e garantire una fornitura stabile.
Il secondo punto è una considerazione basata sulla realtà. La Germania (83 milioni di persone) ha quasi completato il processo di denuclearizzazione e scommette su gas e rinnovabili, ma deve bruciare carbone per compensare la mancanza di infrastrutture. Si stima che quest’inverno, complice anche la crisi dei prezzi del gas, stia emettendo dalle tre alle cinque volte più CO2 rispetto alla Francia (63 milioni). Negli ultimi decenni le emissioni tedesche annualizzate sono state immancabilmente più del doppio di quelle francesi.
Il terzo: si prevede un aggiornamento della tassonomia ogni cinque anni. Questo perché i criteri dipendono dallo stato dell’arte delle tecnologie attuali e (sperabilmente) possono diventare obsoleti. E dunque gli investimenti, anche privati, nelle nuove tecnologie nucleari possono procedere nella loro promettente direzione e godere degli sgravi “verdi”, senza per questo affossare a priori l’emergere di una tecnologia dimostrabilmente superiore.
Tempo e investimenti. Il rapporto di Bruegel
L’ultima analisi di Bruegel, un influente think tank belga, ha evidenziato che i piani di decarbonizzazione europei non sono ancora abbastanza ambiziosi per centrare gli obiettivi. Uno dei motivi è l’incertezza su quali soluzioni tecnologiche siano (saranno) le migliori: elettrificazione o gas verdi, come l’idrogeno? E in quale misura? “Le proiezioni attuali mostrano un vantaggio complessivo dei costi per l’elettrificazione diretta, ma le proiezioni si evolveranno e gli attori critici potrebbero spingere fortemente per i combustibili alternativi”, scrivono gli analisti.
Ne consegue che la politica sia fondamentale nel plasmare e gestire questo equilibrio. Si parte dal porre fine alle tecnologie che emettono carbonio attraverso la tassazione, ma serve creare alternative pulite velocemente: “Più credibile e prevedibile sarà questa strategia nei prossimi decenni, più agevole sarà sia il disinvestimento dalle tecnologie [inquinanti] rispetto all’investimento nelle tecnologie verdi”.
Dunque, urge scegliere le soluzioni tecnologiche e innescare il circolo virtuoso di investimenti, riduzione dei prezzi e adozioni di massa. Soprattutto, serve non andare avanti alla cieca: “Dove non è ancora emerso un sistema dominante, la politica dovrebbe esplorare con forza soluzioni diverse sostenendo la sperimentazione tecnologica e normativa”. A questo serve la tassonomia: favorire ricerca e creazione di valore, a prescindere dalla tecnologia, in linea con il processo di decarbonizzazione. Linea Cingolani: studiare, non escludere.