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Perché fatico a scrivere di Ucraina (e odio la guerra)

La sfortuna di vivere e la fortuna di sopravvivere ad una guerra (vera), 30 anni di esperienze sul campo che legano a Usa, Russia, Unione europea e Ucraina, la priorità di aiutare gli amici a fuggire da Kiev. Igor Pellicciari, ordinario di Relazioni internazionali a Urbino, sul perché a volte un analista deve esercitare il diritto di non analizzare, non subito

Sollecitato da amici e colleghi a commentare la crisi ucraina, è invece il caso di spiegare il motivo della mia reticenza a riguardo. Iniziata molto prima del recente rinfiammarsi dello scenario.

Lo richiede il drammatico epilogo bellico voluto da Mosca di questi giorni che rischia di caricare questo silenzio di significati non suoi.

I motivi di questa assenza dal tema, strana per l’analista di questioni internazionali che si occupa (anche) di vicende russe – sono principalmente due e seguono l’andamento della crisi.

Per essere compresi, necessitano di richiami autobiografici alla propria esperienza nei tre conflitti (Croazia, Bosnia ed Erzegovina, Serbia-Kosovo) che negli anni Novanta hanno devastato il mio paese d’origine, la ex-Jugoslavia.

Il primo motivo si manifesta già nel 2014, nei primissimi giorni in cui la questione ucraina esplode in tutta la sua gravità e vede uno scontro frontale tra Usa, Russia e Unione Europea sulla futura collocazione geo-politica di Kiev.

Il punto è che il sottoscritto arriva a questa crisi con un suo profondo legame personale e non casuale con tutti i contendenti in campo.

Con gli USA, per avere collaborato attivamente con lo State Department all’epoca della presenza americana a Tuzla nella Bosnia del post-Dayton, pacificata in primis grazie all’intervento americano – per il quale, ora per allora, Washington continua ad avere tutta la mia incondizionata gratitudine.

Con la Russia – per averci vissuto negli ultimi venti anni, ricevendo molto più di quanto ho dato come consulente e analista. Sostenuto in una crescita professionale ed accreditamento accademico e diplomatico di primissimo ordine.

Con l’Unione Europa – per avere avuto per più di 25 anni la possibilità di gestire sul campo grandi progetti di assistenza tecnica a Governi in numerosi paesi in transizione, tra cui non solo la Russia ma anche l’Ucraina, dove nel complesso ho vissuto (molto bene, facendomi molti amici) per più di un anno e mezzo dal 2004 ad oggi.

Convinto che tutti questi soggetti – anche se evidentemente in misura diversa – abbiano avuto una responsabilità e un ruolo nelle varie tappe che hanno fatto degenerare la situazione in Ucraina, il sottoscritto ha preferito evitare di scriverne nel dettaglio.

E’ stata scelta dettata non da opportunismo o timore nei confronti dagli attori ricordati – bensì dalla trasversale illusione – per la verità coltivata ancora – della possibilità di coesistenza di una posizione al contempo filo-americana, filo-russa, filo-europea.

Un’opzione per molti utopica, per me semplicemente riassunto e sintesi di una concreta esperienza personale.

Forzare chi l’ha vissuta ad andare oltre le giuste critiche oggi a Mosca per il ricorso all’azione militare e pretendere però uno schierarsi sempre e comunque solo da una parte anche su tutto quanto avvenuto in passato – ricorda quel bambino cui si chiede se voglia più bene al padre o alla madre; mentre l’unica cosa cui aspira è che entrambi trovino un accordo – anche quando non si sopportano più.

Il secondo motivo del ricordato silenzio è più profondo; sfiora il malessere fisico e si manifesta ogni volta che dall’inizio degli scontri nel Donbass nel 2014 fino ad oggi con l’attacco militare russo al resto dell’Ucraina, arrivano notizie ed immagini di vittime tra i civili che ricordano l’incubo che ho visto di persona a suo tempo nel contesto balcanico. Ed in particolare in quello bosniaco.

La sfortuna di vivere e la fortuna di sopravvivere ad una guerra (vera) porta a maturare un sentimento di fastidio verso i conflitti armati tutti, senza distinzione.

A prescindere dalle circostanze e dei motivi di real politik che di volta in volta ne giustificano il ricorrervi. È un sentire naturale, empatico e spontaneo, che poco ha in comune con il pacifismo militante, guardato anzi con sospetto per la sua matrice politica ed un utopismo fine a se stesso.

Si manifesta con un concreto rigetto di stizza nei confronti di tutto ciò che, direttamente o indirettamente, ricordi la guerra. Da una colonna di mezzi dell’esercito che sfila per la strada al semplice rituale dei botti di capodanno. Preso di sorpresa, l’inconscio di chi ha vissuto sotto le bombe non distingue tra lo scoppio di un petardo e la deflagrazione di una granata.

Non serve essere sognatori o irriducibili idealisti per non augurare – nemmeno ai tuoi nemici peggiori – di vivere una guerra, tanto più da civili inermi intrappolati nella propria città, senza acqua, elettricità, cibo. Altro che il lockdown pandemico dove il principale problema è il wi-fi lento e la difficoltà a stare a dieta.

Invidio sinceramente i miei colleghi accademici che in questi giorni a Mosca (ma anche altrove) riescono a commentare la strategia di guerra del Cremlino come si trattasse di spostare pedine su una cartina orizzontale srotolata su un tavolo. Dimenticandosi delle vittime.

Personalmente, sono talmente infastidito dalla guerra – tanto più quando coinvolge terre e genti amiche – che rivendico, da reduce del conflitto europeo peggiore del secondo Dopoguerra, il mio diritto a non analizzarla cercando di dare un senso alla cronaca quotidiana del dolore. Anche qui, non per opportunismo ma in segno di protesta e per stanchezza di un vissuto che da quasi 30 anni cerco di dimenticare, senza successo.

Ho già dato.

Piuttosto, mi sto adoperando in questi giorni per cercare di aiutare amici ad uscire da Kiev in attesa che la situazione si calmi.

Per il resto mi taccio e lascio la parola ai tanti (talvolta troppi) esperti ed opinionisti di questi giorni.

Dopotutto, da sempre la migliore analisi sulla guerra è l’ultima. A conflitto concluso.

(Foto di Vlad, scattata a Kiev il 25 febbraio 2022)

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