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La via italiana (ed euroatlantica) ai microchip

Il Chips Act pubblicato dall’Ue apre una nuova era per i microchip europei. Via libera sostanziale agli aiuti di Stato e infatti brindano i colossi (come l’americana Intel). La sfida tra Usa e Cina e la competizione con l’Asia. E la via italiana per contare sempre di più

Nella partita per i microchip adesso l’Ue fa sul serio. Il “Chips Act” pubblicato dalla Commissione europea non è l’ennesimo post-it di buone intenzioni. Mai infatti Bruxelles aveva dedicato un così ampio programma di sussidi a un solo settore industriale.

I numeri, anzitutto. Dieci miliardi di euro direttamente dall’Unione, altri trenta dal Next Generation Eu e in particolare dai fondi per il digitale, Digital Europe e Horizon Europe. Cinque da investitori privati. Non sono lontani dai 50 miliardi di dollari stanziati dal Congresso americano e l’amministrazione di Joe Biden nel Chips for America Act.

Tre i pilastri del piano, annunciato martedì dalla presidente Ursula von der Leyen. L’iniziativa Chips for Europe per mettere in comune le risorse degli Stati membri dedicate al settore. L’istituzione di un gruppo di coordinamento per il monitoraggio delle supply chain. E, per finanziare start-up e progetti innovativi, il “Chips fund”.

I nomi forse non sono originali, la sostanza però sì. Perché le deroghe alla normativa europea sugli aiuti di Stato contenute nel testo – con un riferimento all’articolo 107 del Tfue – sono il secondo schiaffo al rigorismo fiscale e all’austerity dopo il via libera al Recovery fund di Angela Merkel a inizio pandemia. Per disegnare, fabbricare e vendere i microchip i privati non bastano, servono fondi pubblici. Tanto più se i competitor da fronteggiare sono i campioni asiatici, Cina ma soprattutto Taiwan e Corea del Nord, che non si fanno altrettanti problemi.

Non si può far felici tutti. Se lo spazio di manovra lasciato dalla Commissione agli Stati membri fa mugugnare i falchi del Nord, olandesi in testa, le principali aziende del settore brindano. Come Intel, numero uno in America, contesa tra Francia, Italia e Germania. Il Chips Act, si legge in una nota dell’azienda, “favorirà i piani” di investimento in Europa.

Ma la svolta europea sui semiconduttori ha anche ripercussioni geopolitiche. Per l’asse transatlantico è una buona notizia, perché rimette benzina nella competizione tecnologica con la Cina di Xi Jinping. Che a differenza della vicina Taiwan – prima al mondo per distacco nell’industria dei semiconduttori grazie soprattutto a Tsmc, azienda leader mondiale con un bilancio che vale il Pil di una nazione – non eccelle nella produzione, ma è un formidabile acquirente di microchip. E insieme primeggia nella lavorazione dei cosiddetti “metalli rari” da cui sono assemblati i nanometrici cervelli digitali. Processi complessi, che richiedono grandi impianti e un’enorme forza lavoro, spesso in condizioni di lavoro e salute precarie, su cui il governo cinese può chiudere un occhio, o anche due.

L’Ue insomma torna in partita, riaccendendo i riflettori su un settore che da anni ne era scomparso. Un match che vede l’Italia titolare e non più in panchina. Complice il governo Draghi e in particolare il Mise di Giancarlo Giorgetti, che sui microchip ha avviato un dialogo serrato con Francia e Germania sbloccando i fondi italiani per l’Ipcei (il progetto di co-investimento dell’Ue) finora rimasti congelati.

Sia chiaro: l’Italia non è al centro della mappa europea dei microchip. Sul dischetto c’è la Germania, che ha meno della metà del deficit e ben altri margini di spesa. Senza contare l’inarrestabile industria dell’automotive – che grazie ai microchip vive e sopravvive – peraltro più collaborativa (eufemismo) di quella nostrana.

E però l’Italia ha le sue carte da giocare. Come Stm, il colosso italo-francese dei semiconduttori, più 25% di fatturato nel quarto trimestre del 2021. Suo l’investimento di una fabbrica di chip in carburo di silicio vicino a Catania, valore complessivo di 750 milioni di euro, parte dei quali compresa nel Pnrr. Con una crescita ormai stabile da anni, non è fantascientifico pensare di convertire l’azienda e farla giocare nel campionato dei chip che conta (ad esempio, quelli sotto i 10 nanometri).

Poi ci sono le aziende estere. A partire da Intel, che con il ceo Pat Gelsinger nel 2021 ha sondato il governo italiano per la nascita di un maxi-impianto di “packaging” dei microchip. Diverso dal super-impianto di produzione in arrivo a Monaco, Germania, ma non meno strategico. Mise, Mitd e Palazzo Chigi seguono da vicino la partita, tutt’altro che chiusa. L’azienda americana preferisce un impianto ex novo, greenfield, di ampissime dimensioni e possibilmente vicino a una fonte d’acqua. Di qui il primo “no” alla proposta del sito piemontese di Mirafiori. Ma, spiega chi segue il dossier, nessuna carta è stata ancora tolta dal mazzo, e ci sono altre aziende in contatto con il governo. Nei prossimi mesi anche l’Italia dirà la sua.

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