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Civiltà Cattolica e tutte le lezioni di Gandhi davanti alla tragedia ucraina

Padre Giancarlo Pani in un saggio in uscita per la rivista dei gesuiti ci racconta che il 18 marzo di un secolo fa venne processato Gandhi. La sua è una lezione molto attuale che ci consegna un paragone con i nostri giorni e con la posizione del patriarca Kirill davanti alla guerra

Ci sono due immaginare che si legano strettamente e che vanno capite. La prima raffigura Francesco a colloquio con il patriarca di Mosca, Kirill. Il papa, con la sua semplice veste bianca, è in un ambiente modesto, semplice, l’arredo potrebbe essere quello di una casa come la nostra. Davanti a lui il patriarca ha vesti sontuose, una tiara sul capo ovviamente di enormi dimensioni. Gli ori nell’ambiente sontuoso sono ovunque, come gli stucchi solenni.

Questa immagine sposta l’attenzione: il dialogo importante diventa quello che i due protagonisti hanno con noi.
La seconda immagine è quella del nuovo numero de La Civiltà Cattolica. La rivista ha uno spazio molto ampio per il suo titolo. Lo guardo perché mi colpisce. Questa volta il titolo è solo sullo sfondo. Sopra c’è una sola parola: “Fermatevi”.

Il messaggio, per me, è molto semplice: oggi, in queste ore, Civiltà Cattolica si scrive così: “Fermatevi”. Non fermiamoli, non c’è orgoglio dopo lo sgomento. E cosa c’è? Un credente credo direbbe “amore”, parola difficile da pronunciare in queste ore. Ma cosa c’è di più amorevole verso un grande popolo, una grande cultura, una storia fatta di enormi sofferenze e incomprensioni, geni e contadini, intellettuali raffinatissimi e umili volti provati dal freddo e dal sole avvolti, che dirgli di fermarsi? Questo fermatevi non cancella l’eroismo dei russi che sfidano Putin. Dice ai suoi di tornare all’“animo russo” fermandosi.

In queste due immagini c’è tutto quel che mi serve a capire il bivio di oggi. Orgoglio? O umiltà? Identitarsimo? O richiesta? L’avrei chiusa qui questa breve cronaca se non avessi guardato anche il sommario del nuovo numero di Civiltà Cattolica, che arriverà in libreria sabato, irresistibilmente attratto da un saggio su Gandhi. Segue una puntuale a accuratissima lettura di questa terribile tragedia ucraina, che mi sono ripromesso di leggere, ma la scelta di parlarci oggi di Gandhi mi ha obbligato a partire da qui. Che c’è da dire oggi su Gandhi? Non è morto sotto le bombe di Mariupol, quelle che hanno devastato il teatro-rifugio? No, c’è una storia che non sapevo e che ci parla di oggi, o forse di domani. Il 18 marzo di un secolo fa, ci racconta padre Giancarlo Pani, Gandhi fu processato. Proprio un secolo fa, il 18 marzo, si processava Gandhi… Accadrà di nuovo, domani? Scrive padre Pani: “Di fronte al giudice si dichiarò «contadino e tessitore», colpevole di aver istigato alla «non collaborazione» verso il governo britannico e di averne fomentato la disaffezione, perché «il governo dell’India britannica, fondato sulla legge, opera per realizzare lo sfruttamento delle masse. […] Non ho alcun dubbio che l’Inghilterra dovrà rispondere, se c’è un Dio lassù, di questo crimine contro l’umanità. […] Io mi sto sforzando di dimostrare ai miei connazionali che la non-cooperazione violenta non fa che moltiplicare il male, e che come il male può sostenersi solo grazie alla violenza, così il rifiuto di sostenere il male richiede una completa astensione dalla violenza». Perciò egli chiese al giudice il massimo della pena prevista per il delitto, oppure – qualora fosse d’accordo con lui – di dimettersi dalla carica. Al magistrato non fu difficile dimostrare che gli avvenimenti sanguinosi dei mesi precedenti a Chauri Chaura e Bombay chiamavano in causa la responsabilità dell’imputato. Perciò lo condannò a sei anni di carcere. Tuttavia, aggiungeva di vedere in Gandhi «un uomo di ideali elevati e dalla nobile vita, dichiarandosi spiacente che un uomo siffatto avesse reso impossibile per il governo lasciarlo in libertà». Fu l’ultimo processo di Gandhi. Dopo il 1922, fu arrestato molte altre volte, ma non seguì mai un processo. Questo fu il grande processo”.

Queste parole mi hanno scosso. Ma non perché ho pensato se ci sia un Gandhi a Kiev, no! Ho pensato se ci sia un Gandhi qui, tra noi, che un secolo dopo così tanto lo stimiamo: c’è qualcuno che nelle settimane trascorse ha chiamato a raccolta i militanti non violenti non per chiedere ad alta voce agli altri la non violenza, ma per andare tutti insieme davanti al giudice di oggi, l’esercito russo, a chiedere tutti insieme, senza armi, dai confini tra Ucraina e Russia, di fermarsi o di condannarli? C’è? E così ho dovuto seguitare a leggere. Che cosa? Che “Gandhi aveva attuato nel novembre del 1921 la sua prima campagna per l’indipendenza, che chiamava, con un termine innovativo, la «forza della verità», satyagraha, sinonimo della «resistenza non violenta».

La campagna era stata indetta sulla base di tre riforme sociali: l’unità tra indù e musulmani, l’abolizione della casta degli «intoccabili», l’utilizzo delle materie prime locali, con la promozione del khadi, cioè l’invito ad ampio raggio a indossare abiti realizzati con tela di cotone tessuta a mano personalmente da ogni singolo individuo, per boicottare gli abiti inglesi”. Boicottare oggi potrebbe essere una bella parola, ripensando a dicembre o gennaio. Boicottare…. Non pensiamo agli ucraini, noi oggi siamo in un mondo globalizzato. Abbiamo pensato a dicembre a boicottare il gas russo spegnendo i termosifoni per salvare la pace? I pacifisti non violenti o gli interventisti che così tanto credono nell’Ucraina ci hanno pensato? Il processo a Gandhi il 18 marzo 2022 potrebbe aver luogo dentro di noi? Scrive subito dopo il brano citato padre Pani che Gandhi scrisse nel gennaio di un secolo fa: «Mi auguro di poter persuadere tutti che la disobbedienza civile è un diritto inalienabile di ogni cittadino. Rinunciare ad esso significa cessare di essere uomini. La disobbedienza civile non conduce mai all’anarchia. […] Devono essere prese tutte le misure possibili per evitare qualsiasi manifestazione di violenza”.

Anche qui è venuto naturale pensare che se avessimo davvero ammirato Gandhi avremmo potuto disobbedire anche noi, per la pace che ci interesserebbe così tanto, chiedendo di non usare il gas di chi si accingeva a invadere un Paese sovrano, per riscaldarci. “La disobbedienza civile è un diritto inalienabile”, ma non riguarda solo gli altri, Gandhi la chiedeva a sé, ai suoi. La lezione, quella per domani, però è un’altra. “La condanna avrebbe potuto segnare la fine della lotta che Gandhi aveva sostenuto fino a quel momento per la liberazione dell’India. Ebbe invece un’altra conseguenza: rafforzò il valore della sua persona e la sua fama agli occhi degli indiani. Vi furono altri risultati. L’arresto significò il suo riconoscimento, da parte del governo britannico, come leader principale del movimento nazionale per l’indipendenza, e il Congresso diventava un’organizzazione dagli ampi confini geografici e sociali. Concretamente, la sorpresa per l’arresto e la pubblica notizia della condanna aumentarono gli iscritti al partito e i fondi per sostenere la causa”. Pensarci fa bene, ma forse fa male.

L’articolo prosegue, davvero importante per le tante chiavi che ci offre per capire l’oggi. Ma la sua lezione più eclatante è il brano di Gandhi che a me sembra scritto per l’uomo da cui siamo partiti, il patriarca Kirill. L’autore ricorda che uno degli aspetti più sorprendenti di Gandhi fu la fedeltà all’impero britannico. Riconosceva i valori di fondo della Costituzione inglese: la giustizia, la libertà, l’uguaglianza. Tuttavia, il governo rappresentava in India “la lotta tra la civiltà moderna, che è il regno di Satana, e la civiltà antica, che è il regno di Dio. Quello è il Dio della guerra, questo il Dio dell’amore. I miei compatrioti imputano i mali della civiltà moderna al popolo inglese e credono di conseguenza che siano cattivi gli inglesi, non la civiltà che essi rappresentano. […] Perciò ritengono che sia loro dovere adottare […] la violenza per cacciare gli inglesi”. Un articolo da non perdere, illuminante.


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