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Da Tunisi a Baghdad, resta incerto il cammino delle riforme

Dei processi di cambiamento istituzionale, transizioni costituzionali e riforme politiche ne hanno discusso esperti internazionali in una conferenza organizzata dall’Ispi con l’Atlantic Council

Da Tunisi a Baghdad, quali sono le principali sfide per lo sviluppo dei processi di costruzione istituzionale? Cosa indicano queste sfide in termini di transizioni politiche e partecipazione della società civile? Quali sono le prospettive per l’ulteriore sviluppo dell’istituto legittimo e le reali prospettive di riforma?

Sono questi i quesiti posti da Karim Mezran, Senior Associate Research Fellow, Ispi; director of the North Africa Initiative, Rafik Hariri Center, Atlantic Council, in un convegno dal titolo: Le sfide dello sviluppo e delle riforme delle istituzioni nella regione Mena.

Molti Paesi della regione infatti stanno attualmente attraversando processi di cambiamento istituzionale, transizioni costituzionali e riforme politiche. Lo sviluppo di questi processi non è omogeneo in tutta la regione. In Tunisia, sia la situazione politica che il percorso verso il ripristino delle istituzioni democratiche e dello Stato di diritto rimangono incerti, poiché il Paese si trova già ad affrontare un fragile contesto socioeconomico. In Libia il rinvio delle elezioni e i successivi sviluppi politici hanno aperto una nuova e imprevedibile fase del processo di stabilizzazione. Nel frattempo, l’Iraq è a un punto morto politico. Mentre la formazione del governo zoppica, il Paese è bloccato tra attriti e controversie sulle richieste di importanti leader politici. In Giordania, gli emendamenti costituzionali recentemente approvati potrebbero avere un impatto sul sistema politico e sull’equilibrio istituzionale del Paese.

A Baghdad ad esempio, secondo quanto ha spiegato Dlawer Ala’Aldeen, presidente del Middle East Research Institute ci sono state le elezioni lo scorso ottobre e negli ultimi sei mesi non è stato formato ancora un nuovo governo. “Non è strano perché ogni volta che ci sono elezioni si verifica una cosa simile e sono necessari sei mesi o più – ha aggiunto -. Nel frattempo ci sono state proteste per presunte violazioni della Costituzione. Questa volta non possiamo incolpare le potenze regionali per avere con le loro influenze condizionato la mancata formazione del governo ma il tutto è legato a ragioni locali”.

La transizione istituzionale in Iraq quindi non è riuscita. Il processo di costruzione dello Stato di Diritto ha avuto dei grossi problemi così come la governance non è andata in porto. “In Iraq non c’è una Costituzione da molti anni e le ragioni sono di carattere politico e non costituzionale – ha aggiunto l’esperto -. Il Senato inoltre non è riuscito a garantire una stabilità legislativa. Nonostante 19 anni passati dal cambiamento di regime non abbiamo ancora una stabilità istituzionale e una costituzione. Non ci sono inoltre meccanismi che consentono al governo di sciogliere il parlamento o di metterlo alla prova per la sua inefficienza. La corruzione inoltre è cresciuta e pesa sul bilancio statale. Ci sono inoltre fenomeni di radicalizzazione e di disoccupazione alla base. Ci sono però delle novità perché questa volta la maggioranza sciita e l’Iran impediscono ai sunniti e ai curdi di formare una coalizione di governo. Purtroppo così come in passato anche ora abbiamo la stessa macchina di dittatura al governo che impedisce lo sviluppo di aspirazioni democratiche”. Al momento quindi tutti sono concordi sul fatto che in Iraq la costituzione non è perfetta “ma è abbastanza buona per porre in essere una road map. Il problema è che il governo è disegnato in modo tale da aiutare un sistema autoritario”.

È diversa invece la situazione in Tunisia, come ha spiegato Monica Marks, docente della New York University di Abu Dhabi, dove c’è una cultura costituzionale. Partendo dalla cultura di quello che in arabo si chiama Dustur, da cui è nato il partito Dusturiano. Nonostante questo è poi sorta un’altra tendenza è quella Zaimi caratterizzata dalle figure dei presidenti come Habib Bourghiba e Ben Ali a loro volta caratterizzate da strutture corrotte. “Queste tendenze sono presenti finora in Tunisia e abbiamo poi visto un movimento di riforme politiche arrivato fino ad oggi con il golpe del luglio scorso che ha segnato un ritorno alla tendenza del Zaim, del leader”, ha sottolineato Marks. “Il presidente Kais Saied ha tentato di giustificare con la Costituzione le sue decisioni. Poi abbiamo visto come il presidente ha bloccato il parlamento ed ha colpito tutti i deputati anche quelli che lo sostengono. Dove ha fallito la transizione democratica in Tunisia è anche nel settore giudiziario con la creazione di una nuovo Alto Consiglio costituzionale”. Al momento però non è emersa una vera coalizione anti Saied, l’opposizione è molto divisa così come la società civile. “La maggior parte dei partiti non vogliono lavorare con Ennahda e c’è una polarizzazione dei partiti politici. La prospettiva migliore per la Tunisia non è la Road Map proposta da Saied che va tramite un referendum verso il rafforzamento del suo potere”, ha aggiunto. A livello internazionale invece al momento i due player principali nel processo politico tunisino, gli Usa e l’Unione europea, sono in una fase di attesa.

Un esempio invece di Paese in cui manca una cultura costituzionale e istituzionale è la Libia, come ha spiegato Tarek Megerisi, Senior Policy Fellow di Ecfr. “Le istituzioni governano con le competenze e amministrano le popolazioni con le loro aspirazioni, ma Gheddafi ha governato a lungo la Libia senza le istituzioni. Questa sua politica ha limitato le capacità di governance delle istituzioni locali e lo sviluppo del paese”. E questo lo vediamo anche ora nonostante sia caduto il suo regime nel 2011 “perché le strutture ministeriali e istituzioni di fatto non esistono. Servono solo a dare lavoro alla popolazioni ma sono disegnate per essere improduttive. La sfida maggiore ora in Libia è come costruire le nuove istituzioni”. Non si tratta quindi di una cosa meccanica ma della necessità di una cultura alla base su come lavorare. Per l’esperto “è impossibile costruire una strategia. Gheddafi è stato ucciso più di 10 anni fa e nulla è stato fatto in Libia in questo senso. La gente ha ancora una visione della politica simile a quella della vecchia Jamahiria. La mancanza di sicurezza spinge le persone a pensare che si sta meglio in un sistema decentralizzato. Manca una cultura politica che porti le persone verso una costituzione e quindi il futuro da questo punto di vista dello sviluppo istituzionale in Libia è pessimistico. L’eredità dell’iper centralizzazione, della corruzione e della Jamhiria hanno legittimato le rivendicazioni di alcuni gruppi e questo potrebbe portare ad alcuni cambiamenti”. Al momento è importante il ruolo giocato dalla missione dell’Onu che sin dal 2014 “ha lavorato per costruire un sistema di potere sostenibile. Col passare del tempo purtroppo la situazione è peggiorata in Libia per la popolazione e le istituzioni”.

Promettente invece è il processo di riforme in corso in Giordania. Samar Muhareb, ceo della Arab Renaissance for Democracy and Development, ha spiegato che il dibattito organizzato dall’Ispi arriva in un momento unico per la Giordania per le riforme del settore pubblico e privato che sono in corso. “Registriamo una maggiore apertura e fiducia nelle istituzioni in Giordania da parte dei media e dell’opinione pubblica in particolare sul ruolo che ci aspettiamo possano avere nel paese al servizio della popolazione”, ha spiegato. Come è stata affrontata la pandemia ha dato fiducia sulle capacità delle istituzioni di Amman. Eppure il Paese è circondato dai conflitti regionali come quello israelo-palestinese. La sicurezza è quindi “la priorità della nostra agenda così come quella economica. Ci sono state riforme che hanno dato indipendenza ad esempio al settore economico. La situazione della società civile è buona ed abbiamo 6 mila associazioni che lavorano in partnership con le organizzazioni internazionali. Di queste solo poche hanno un grosso budget e si occupano in particolare dei profughi e della crisi per la pandemia. Queste risorse indipendenti non sono sufficienti e ci chiediamo cosa fare per rafforzare le istituzioni e assicurare una rappresentanza equa per tutti, compreso i rifugiati. Si pensa a come usare i social media per rappresentare le nostre esigenze”.

 


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