Vale la pena difendere la democrazia? E chi vince lo scontro storico-ideale con le autocrazie? Non è vuota retorica ma la sfida del nostro secolo, e da Kiev risuona una risposta chiara. Il dibattito al convegno “Healing democracies” al Centro Studi Americani
A tutti il pensiero deve aver sfiorato la mente, almeno una volta. “Lì le cose funzionano meglio”. La Cina di Xi Jinping tiene a bada il virus del Covid-19. La Russia di Vladimir Putin riesce a ridurre le proteste e le manifestazioni di piazza a un brusio di fondo. Le Filippine di Rodrigo Duterte tolgono dalle strade ladri e rapinatori. Le autocrazie, dopotutto, funzionano meglio delle democrazie.
Due anni di pandemia hanno radicato un antico pregiudizio in larga parte dell’opinione pubblica occidentale. Una sola notte è bastata a spazzarlo via. I carri armati inviati da Mosca in Ucraina, con un’invasione militare di uno Stato libero di ottocentesca memoria, sono stati un brusco risveglio. E le immagini che arrivano da Kiev, Kharkiv, Mariupol, le colonne di civili in fuga e l’ospedale pediatrico sotto le bombe, ci interrogano, sfidano quel pregiudizio.
Vale ancora la pena parlare di democrazia? Difenderla, rivendicarla, magari non solo a parole ma se necessario imbracciando le armi come in queste ore nelle strade e nei vicoli ucraini? Dal Centro Studi Americani di Roma giovedì, durante il convegno “Healing democracies” organizzato in partnership con Rai Cultura, Rai Storia e il Robert Kennedy Human Rights, è risuonata una risposta netta. “Di fronte agli eventi di queste settimane ho riletto Samuel Huntington: la democrazia è davvero un “malato cronico”?”, si chiede in apertura il presidente del centro Gianni De Gennaro. “Io credo di no. La forza, la salute di una democrazia non sta nella sua immutabilità ma nella capacità di adattarsi di continuo alle nuove sfide della società senza rinunciare ai suoi valori fondanti, alla libertà e al rispetto delle regole condivise”.
Da un mea culpa non ci si può esimere, aggiunge. La leggerezza commessa dalla democratica Europa nei suoi pochi decenni di vita è stata “convincersi che una guerra sul nostro continente fosse un retaggio del passato”. In due anni sono crollati tanti tabù che credevamo inamovibili. Prima la pandemia del Covid-19, i lockdown e un furibondo dibattito, a tratti al limite del surreale, sulla “compatibilità della lotta alla pandemia e dei divieti con la democrazia, il rischio di una deriva autoritaria”.
Poi una guerra di aggressione, boots on the ground, che “ci costringe a cambiare i nostri parametri di giudizio, a riconoscere che esistono modelli politici e sociali profondamente distanti dai nostri e che costituiscono una minaccia concreta e attuale alla nostra libertà”.
Sul “risveglio” dell’Occidente non c’è da farsi troppe illusioni. La guerra russa in Ucraina piomba su un’Europa e un’America politicamente lacerate dalla pandemia, scosse dal terremoto no-vax e da un disagio socio-economico dilagante. Né la compattezza di Ue, Usa e Nato si riflette nelle rispettive opinioni pubbliche, dove resistono sacche di aperta simpatia, per non dire complicità, verso le azioni di Putin.
“Ricordiamo che una parte non irrilevante del Partito repubblicano americano è ancora nelle mani di Donald Trump, un ex presidente che solo un anno fa ha invitato i suoi a marciare sul Campidoglio, firmando il suo disastro politico”, riflette Antonio Di Bella, dirigente Rai e reporter di lungo corso.
“In Italia, allo stesso modo, c’è una fetta dell’elettorato conservatore che difende chi assalì quel Parlamento e oggi prende le difese di Putin, antagonista ideale dell’incapace, corrotta, debole democrazia parlamentare”. Per dirla con il politologo Ian Bremmer, “siamo nell’era degli uomini forti”. E in Italia come altrove in Europa l’uomo forte piace. Anche se rinchiude in carcere giornalisti e dissidenti o invade con i tank un Paese libero.
“È questa la vera minaccia che incombe sulle democrazie occidentali: l’attacco diretto al loro spazio civico, che ne è il cuore pulsante”, sospira Kerry Kennedy, figlia di Bob Kennedy e presidente onoraria della Robert F. Kennedy Human Rights Italia. “Quando giornalisti, avvocati, ong temono di finire in prigione o di essere torturati si è di fronte a un dramma che ci riguarda tutti”. Parlare di democrazia e del suo destino nel 2022 è un rischio. Si rischia di indugiare nella retorica, di ripetere lezioni stantíe e avulse dalla realtà intorno. La guerra in Ucraina però, nella sua lucida semplicità, chiama a un giudizio che non può essere imparziale o, peggio, neutrale.
Dice Monica Maggioni, direttrice del Tg1, una carriera da inviata di guerra: “È vero, l’appeal delle democrazie oggi è messo in discussione. Vogliamo ripensarle, abbiamo a tratti pensato che i sistemi autocratici offrissero una via più diretta alla soluzione dei problemi. Ma gli eventi in Ucraina ci ricordano che non è questa l’epoca delle scorciatoie. Quando in ballo ci sono i principi fondanti della nostra società, serve una garanzia di fondo. Che nessuno possa alzarsi un giorno e decidere di cambiare i confini, mettere in discussione la vita e il diritto all’esistenza di un popolo”.