Il maxi pacchetto-legge che ridefinisce i mercati digitali è pensato per proteggere i consumatori e favorire la competizione. Limiti alle pratiche anticoncorrenziali, ma anche privacy e interoperabilità. Rimangono i (forti) dubbi sull’applicazione e le giurisdizioni
Deal. Le ultime negoziazioni attorno al Digital Markets Act (Dma), il pacchetto-legge che ridisegnerà i mercati digitali del Vecchio continente, si sono concluse giovedì sera. I rappresentanti del Consiglio e del Parlamento europei hanno raggiunto l’accordo nel pieno dello svolgimento della due giorni tra leader europei, del G7 e della Nato a Bruxelles. Il testo verrà adottato 20 giorni dopo l’approvazione finale, attesa a momenti, e applicato a sei mesi da allora: con ogni probabilità le regole saranno applicate a inizio 2023.
Il nuovo quadro regolatorio è pensato per limitare le pratiche anticoncorrenziali delle Big Tech globali, che poi sono prevalentemente americane (e infatti Washington osserva attentamente). L’Ue confida anche nel cosiddetto effetto Bruxelles, ossia la propagazione a livello globale delle regole imposte sul mercato singolo più grande al mondo. Per Politico il Dma “stabilirà lo standard per livellare il campo di gioco nei mercati digitali globali”.
Il risultato finale è in linea con quanto trapelato in settimana: le regole, che prevedono pesanti limiti di operabilità, si applicheranno solo alle aziende con tre qualità-chiave: almeno 75 miliardi di dollari di capitalizzazione di mercato globale, almeno un core platform service (ossia un servizio definito, come il social networking, un motore di ricerca o un assistente vocale) e la soglia minima di 45 milioni di utenti attivi (mensilmente), più quella di 10.000 utenti aziendali attivi (annualmente).
Un raggio più esteso rispetto alla bozza finale del Parlamento, approvata lo scorso dicembre, che essenzialmente avrebbe colpito solamente le cinque grandi Big Tech americane – Amazon, Apple, Google, Meta (già Facebook) e Microsoft. Nei nuovi limiti dovrebbero rientrare molte più aziende, come l’olandese Booking.com e la cinese Alibaba. Violare le regole può innescare una sanzione fino al 10% del fatturato mondiale annuo. In caso di recidiva si può salire al 20% e applicare un blocco temporaneo delle acquisizioni.
Cosa cambia per utenti e Pmi
All’atto pratico, il Dma vieta alcune pratiche anticoncorrenziali tipiche dell’ultimo ventennio, per cui le suddette aziende hanno ripetutamente suscitato le ire dei regolatori – che a loro volta faticavano a star dietro allo sviluppo rapidissimo delle realtà digitali. Bruxelles ha ribaltato il tavolo: ora una lunga serie di comportamenti saranno vietati ex ante per le multinazionali in oggetto, e dovranno essere approvati volta per volta.
In sostanza si passa da un approccio punitivo a uno restrittivo, ma fatto su misura per i giganti. Queste regole sono pensate per permettere alle realtà più piccole (come le Pmi digitali) di accedere più facilmente al mercato, e ridurre la possibilità che i giganti del web si consolidino attraverso la pratica buy or bury (compra o affossa). Sono anche progettate per restituire agli utenti un certo livello di controllo sui propri dati.
Un esempio pratico: le Big Tech non potranno costringere o favorire l’adozione combinata dei propri servizi. Cioè se si compra un telefono Android (sistema operativo di Google) l’azienda dovrà offrire delle alternative concorrenti alle proprie applicazioni (Chrome, Maps, Gmail…) fin dalla prima accensione. O ancora, una realtà come Meta subirà limitazioni alla pratica di attingere a più fonti per creare un profilo pubblicitario più preciso dei propri utenti, senza che detti utenti lo sappiano.
Inoltre, sono state approvate anche le regole di interoperabilità, per consentire agli utenti di comunicare attraverso servizi di messaggistica differenti, come WhatsApp e Signal. “I consumatori avranno la possibilità di scegliere i servizi principali delle grandi aziende tecnologiche […] senza perdere il controllo sui loro dati”, ha detto Andreas Schwab, l’eurodeputato relatore del Dma.
Gli ostacoli e il contesto
Sia Bruxelles che Strasburgo sono tangibilmente entusiasti dell’entrata in vigore del Dma, ma rimangono pesanti dubbi su alcuni aspetti tecnici, sull’applicazione del nuovo pacchetto-legge. “Molte delle nuove regole richiederanno un grande lavoro tecnico e legale, come i requisiti di interoperabilità e gli obblighi di condivisione dei dati”, ha detto a Politico Cecilia Bonefeld-Dahl, a capo della lobby Digital Europe, che a sua volta rappresenta attori come Amazon, Apple, Meta e Google.
Dall’altra parte ci sono gli Stati Uniti, la “casa” delle Big Tech più importanti al mondo. Nonostante il Congresso e l’amministrazione di Joe Biden stiano lavorando per adottare provvedimenti simili a quelli contenuti del Dma – seppure con più lentezza, considerato anche il peso specifico di quelle aziende nell’economia americana – un’applicazione discriminatoria o sbilanciata del Dma può inasprire il difficile dialogo su temi di tecnologia e mercato, rinnovato dopo il quadriennio trumpiano con il Consiglio commercio e tecnologia (Ttc) ed essenziale per i due poli democratici più grandi al mondo.
Infine, c’è il problema della sovrapposizione tra le giurisdizioni: cioè, a chi spetterà investigare e far rispettare questi nuovi limiti. Se il Gdpr ha insegnato qualcosa, è che applicare quadri regolatori così complessi è una sfida di portata immensa – e non è ancora chiaro che genere di uffici e forza lavoro voglia mettere in campo la Commissione. Questi e altri problemi sono stati sollevati su queste colonne dal professor Giuseppe Colangelo, esperto di politiche della concorrenza, ma anche da Roberto Rustichelli, presidente dell’Agcm (l’autorità antitrust italiana), e persino da Washington. Per non parlare delle aziende, che temono di dover gestire la frammentazione legale e la duplicazione delle cause.