Dai frutti perversi della battaglia per il Quirinale alle velleità imperialistiche di Putin e l’orrore in Ucraina. Neanche il partito del non voto basta, forse, a garantire Draghi fino a fine corsa. Il mosaico di Carlo Fusi
Allo stato nessuno capisce come si possa sanare la contraddizione, talmente stridente da diventare allucinatoria, tra l’esigenza che il quadro politico resti stabile considerati i venti di guerra che soffiano a Est tra Russia e Ucraina e che hanno rinsaldato la maggioranza coinvolgendo anche Giorgia Meloni, e la guerriglia ormai continua e irrefrenabile tra e dentro le forze politiche della coalizione di unità nazionale sulle materie di maggior sapore elettorale come il catasto e il fisco.
Guerriglia che ha portato ad una spaccatura che tra annunci, musi duri e aut aut avrebbe condotto il governo sull’orlo della crisi. A cui, beninteso, nessuno crede, ma che giorno dopo giorno assomiglia a chi insistere a camminare sul ciglio del burrone e alla fine mette un piede in fallo rovinando a valle.
Nessuno capisce come sanarla quella contraddizione forse semplicemente perché la soluzione non c’è. Situazione interazione e equilibri politici interni viaggiano su due binari paralleli e per nulla coincidenti. L’orrore del conflitto ucraino, i colpi di coda del Covid – pandemia di cui nessuno parla più ma che continua ad esistere eccome – e il rispetto degli impegni presi con la Ue riguardo il Recovery impongono una tabella di marcia che Mario Draghi non solo ha in gran parte contribuito a fissare e continua a farlo con i partner europei, ma soprattutto intende rispettare al millimetro.
Mentre dall’altro lato la debolezza del premier indotta dalla mancata elezione al Quirinale e le incomprimibili ansie da campagna elettorale, che come al solito in Italia è lunghissima, lasciano campo aperto a fibrillazioni e divaricazioni nei partiti che fungono da rombi di tuoni che precedono la tempesta.
Si tratta di due condizioni entrambe fondamentali e che a buon diritto si sostengono l’un l’altra ma che tuttavia non trovano un punto d’intesa sufficientemente stabile. Il che significa che si andrà avanti così, con SuperMario sempre più lograto eppure insostituibile e i partiti della maggioranza che continueranno a menarsi fendendi, lasciando l’opinione pubblica attonita e sconcertata e alimentando i focolai di disaffezione e astensionismo.
In realtà scontiamo i frutti perversi della battaglia per il Quirinale che è stata giocata all’insegna della conservazione di un quadro politico che a contrario era in grande movimento e richiedeva risposte all’altezza della situazione. Con in più l’ampliarsi delle problematicità dovute ad un assetto europeo e internazionale che le velleità imperialistiche di Vladimir Putin hanno stravolto in profondità, producendo ferite che ci vorranno anni per rimarginare. Sempre che sia possibile. La continua evocazione dell’Armageddon nucleare e l’attacco alle centrali ucraine sono segnali terrorizzanti, maneggiati con irresponsabilità.
La stessa irresponsabilità che è l’arma contundente che gli schieramenti di centrodestra e centrosinistra brandiscono rimpallandosi le responsabilità di scontro sulle materie di governo. Bene, è sbagliato farsi illusioni. L’estrema difficoltà a modificare la legge elettorale (posto che poi il proporzionalismo a gran voce invocato non risulti una toppa peggiore del buco) farà sì che in vista prima delle amministrative e poi delle elezioni politiche i due contenitori, nonostante siano attraversati da spaccature e anche qui contraddittorie visioni, torneranno a saldarsi riproponendo quella che Silvio Berlusconi definisce “la normale dialettica tra destra e sinistra”.
Il che vuol dire, come è apparso chiaro nel voto sulla riforma del catasto che a giorni verrà riproposto in aula, che centrodestra e centrosinistra in una qualche maniera si amalgameranno per contrapporsi. Gli esiti sono imperscrutabili ma non si va lontano dal vero immaginando che segneranno il percorso della legislatura fino alla sua scadenza naturale, visto che di elezioni anticipate nessuno vuole parlare pur se l’incidente, come detto, è sempre lì.
In uno scenario siffatto, c’è chi insiste a invocare che Draghi resti al suo posto oltre la prova elettorale del 2023, evidentemente con la medesima maggioranza di adesso. Per far sì che un simile scenario si realizzi, occorrerebbe una sforzo di politica e lungimiranza di cui non si vede traccia. È un whisful thinking. Un pio desiderio. E con quelli non si va lontano.