Il presidente del Consiglio, e non poteva essere altrimenti, ha capito subito che il quartetto Washington, Berlino, Parigi, Roma è il perimetro entro il quale si definisce il nuovo ordine mondiale al di qua degli Urali: la nuova Yalta che sarebbe esiziale se ci vedesse esclusi. Il mosaico di Carlo Fusi
Dopo un’iniziale cautela sulle sanzioni anti-Mosca, Mario Draghi è via via diventato tra i più intransigenti difensori del diritto dell’Ucraina a rispondere all’invasione russa. E tra i più solerti ad sostenere che quella resistenza andava aiutata in tutti i modi, anche con l’invio di aiuti militari. È facile intuire il perché. La notte tra il 23 e il 24 febbraio scorso, quando le truppe di Putin hanno varcato i confini ucraini e cominciato a bombardare le città del presidente Zelensky, è cambiato il mondo. La guerra costringe tutti a schierarsi; il pacifismo ideologico è l’anticamera della resa agli strappi del più forte, la rottura dei rapporti tra Est e Ovest rimescola le carte della diplomazia internazionale e apre scenari nuovi e inquietanti sotto il profilo degli equilibri geo-politici tra i player mondiali, Cina in primis.
In questo contesto l’Europa, sul cui suolo dopo 77 anni torna a sinistramente rimbombare il ruggito dei carri armati in marcia, è chiamata a svolgere un ruolo cruciale che riguarda non solo la sua identità ma per certi versi addirittura la sua esistenza come soggetto politico autonomo. Al momento è l’anello debole della catena, ed è un condizione non agevole. Il rapporto con gli Usa va cementato ma su basi nuove, senza immaginare che l’ombrello della Nato sia a costo zero e che le alleanze prevedano convegni e confronti ma non anche interventi sul campo. Il presidente del Consiglio – e non poteva essere altrimenti – ha capito subito che il quartetto Washington, Berlino, Parigi, Roma è il perimetro entro il quale si definisce il nuovo ordine mondiale al di qua degli Urali: la nuova Yalta che sarebbe esiziale se ci vedesse esclusi.
Ecco dunque da dove nasce e su che basi poggia la determinazione di SuperMario: onorare gli impegni, compreso il rispetto del 2 per cento del Pil per la spesa per la Difesa, è fondamentale per far parte del club dei Paesi che organizzeranno i nuovi equilibri della politica di guerra – energia, inflazione, armamenti eccetera – che dureranno non mesi ma anni.
Se così è, la contrapposizione tra il presidente del Consiglio e Giuseppe Conte, nuovamente incoronato leader dei Cinquestelle, assume contorni meno elettoralistici (che pure ci sono, eccome) e più di sostanza. L’ex premier per compattare le fila assai sbrindellate del suo MoVimento ha scelto un discrimine che per Draghi è semplicemente inaccettabile. Mostrarsi oggi non risoluti su da quale parte stare, senza i salamelecchi del rinvio strumentale nel tempo degli obblighi atlantici, significa collocare l’Italia su un crinale ambiguo che la svelle dal suo tradizionale posizionamento, ne fa una terra di frontiera dove operare scorribande come quelle svolte dalla propaganda putiniana ai tempi degli esecutivi gialloverdi, ne descrive lo status di alleato infido e poco coeso. È ovvio che una cosa del genere, se radicata, getterebbe ombre sul crinale della fiducia occidentale. Un prezzo molto alto da pagare, e che costringe Enrico Letta, giustamente preoccupato per l’andazzo del suo principale alleato, a nuove considerazioni su come attrezzarsi per la prossima campagna elettorale ben sapendo, come da queste parti è stato più volte sottolineato, che se la legge elettorale resta questa non ci sono alternative alla logica di schieramento che costringe a stare a fianco del M5S.
La mossa di Draghi di coinvolgere Mattarella serve a confermare un orientamento dell’Italia che vale per l’oggi e soprattutto per il domani. Lasciamo stare i venti di crisi o, peggio, di elezioni anticipate: sbocchi che andrebbero nella direzione di provocare crepe nel quadrilatero Usa-Ue e metterebbero Roma in posizione subalterna rispetto agli altri. Il punto vero è che Draghi sa che più va avanti e più il cammino della maggioranza si farà faticoso, e il suo ruolo destinato a depotenziarsi fino ad uscire di scena con le elezioni del marzo 2023. Questo a proposito di chi spiega che la decisione di escluderlo dal Quirinale sia stata la migliore “e figuriamoci se oggi non fosse a capo del governo”. SuperMario è fondamentale, non c’è dubbio. Ma chi inneggia alla situazione attuale non può tacere sul fatto che tra pochi mesi l’ex presidente della Bce non sarà né al Quirinale né a palazzo Chigi. Un altro né-né dai contorni più rovinosi e di sapore irreparabile di tutti gli altri.