L’azione del presidente del Consiglio non può che essere supportata perché anche quando e sempre troppo tardi, le armi in Ucraina taceranno, ci vorranno anni e anni affinché le ferite inflitte dalla sconsideratezza di Putin vengano suturate
Forse sarebbe il caso di riprendere il filo di Mario Draghi e usarlo per ricucire gli strappi che una politica troppo concentrata su sé stessa ha provocato nel tessuto della coesione sociale. Soffermiamoci un attimo. Draghi è stato chiamato da Sergio Mattarella a recuperare il senso di marcia di una legislatura slabbrata dai trasformismi e dalle strumentalità e finita in un vicolo cieco dove si era smarrito il senso della governabilità, per far fronte a due emergenze una più terribile dell’altra: il Covid e l’incubo dei finanziamenti Ue a rischio scomparsa.
L’ex presidente della Bce ha avviato un lavoro che ha risolto la prima come e meglio di tanti altri Paesi europei ed extraeuropei; mentre per la seconda ha offerto un personale e genuino patrimonio di autorevolezza e credibilità praticamente sconosciuto da anni al di qua delle Alpi. Che ha prodotto alla grande i suoi effetti positivi sulla ritrovata fiducia verso l’Italia. I media lo hanno descritto come un personaggio dotato di super poteri, capace di risolvere praticamente da solo la crisi.
Una vulgata semplicistica e sbagliata perché in un sistema democratico nessun demiurgo è ammesso, e ciascuno degli autori politico-istituzionali deve prendersi le sue responsabilità di fronte ai cittadini. Con questo carico sulle spalle Draghi è arrivato alla prova del Quirinale e si è trovato a dover fronteggiare critiche surreali per aver contemporaneamente fatto troppo o troppo poco per la sua candidatura. Così il Palazzo gli ha voltato le spalle, intimandogli di restare a palazzo Chigi a fare il San Sebastiano della crisi di sistema, in attesa del purificatore lavacro elettorale.
Draghi ha tenuto botta rimandando al posto suo, per completare la missione che gli era stata assegnata. Anche in questo caso, lo hanno descritto come deluso per non aver potuto soddisfare la sua ambizione: quel “se voglio un lavoro me lo trovo da solo” è la migliore risposta possibile.
Adesso le contorte e drammatiche vicende che stiamo vivendo, a partire dal conflitto tra Russia e Ucraina che può diventare l’innesco di una guerra su vasta scala e che dunque deve essere reso inoffensivo al più presto, lo rimettono al centro della scena: italiana e non solo. Il rapporto costruito con Macron, con il quale parla lo stesso linguaggio tecnico-politico, e la costruzione di un asse con i Paesi mediterranei della Ue per fronteggiare le difficoltà di approvvigionamento e stoccaggio del gas ne sono la riprova.
L’adesione convinta di Enrico Letta sulla consegna di armi a Kiev gli garantisce il sostegno del ritrovato, almeno nei sondaggi, primo partito. Lo scudo offerto a Salvini dagli attacchi di sinistra stringe il capo leghista al locomotore governativo, mentre Berlusconi resta silente su Putin ed occupato ad organizzare la sua festa di non-matrimonio, e la Meloni cresce ma non può disconoscere e tantomeno discostarsi dalla posizione assunta da palazzo Chigi sulla crisi ucraina.
Dove porta tutto questo? Innanzi tutto, come detto, dovrebbe condurre al riconoscimento dell’essenzialità di Draghi, personalità troppo decisiva perché l’Italia possa permettersi il lusso di sfarinarla nei giochi di palazzo. E di conseguenza dovrebbe spingere a lavorare alacremente affinché i mesi che restano fino alla scadenza naturale della legislatura siano impiegati al meglio. Ma è proprio qui, invece, che lo strabismo politico assume contorni paradossali se non proprio autolesionistici.
Da un lato, infatti, l’azione del presidente del Consiglio non può che essere supportata perché anche quando e sempre troppo tardi, le armi taceranno ci vorranno anni e anni affinché le ferite inflitte dalla sconsideratezza di Putin vengano suturate. Il che significa anche rivedere il Pnrr alla luce della mutate condizioni geo-politiche e degli interessi dell’Italia, a partire dall’aumento delle spese militari e per gli armamenti.
Dall’altro, i partiti si preparano allo scontro nelle urne seminando il cammino riformista di ostacoli – dal catasto alla giustizia alla concorrenza – di sapore elettoralistico. Ed è una contraddizione che pesa come un macigno. Guai a pensare che basta lasciare Draghi dov’è per mettere una pezza e andare avanti facendo finta di nulla.