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L’economia globale dipende ancora dalla politica internazionale

Le questioni internazionali, gli scontri geopolitici, sono determinanti per il corso economico globale. Dalla reazione al Covid alla guerra in Ucraina, ciò che le grandi potenze decidono, i loro scontri e le loro azioni, determinano reazioni sui mercati, sul commercio e sull’industria

Oltre due anni di pandemia e i rinnovati blocchi di sicurezza sanitaria in Cina per contenere nuovi potenziali picchi pandemici. La guerra tornata in Europa con l’invasione dell’Ucraina decisa da Vladimir Putin. L’inflazione schizzata e le materie prime alle stelle, una ripresa che fatica a ripartire. Un incrocio di condizioni e circostanze che dimostrano come l’economia globale dipenda imprescindibilmente da questioni di politica internazionale.

Aspetti di come funziona il mondo che le persone hanno dato per scontati per una generazione, e che invece ora sono diventati profondamente incerti, ha scritto Neil Irwin su Axios. Il flusso del confronto tra potenze, le dinamiche geopolitiche e le tensioni internazionali, incombono sui mercati mondiali e pesano direttamente su risparmi e spese dei singoli individui — il prezzo del carburante alla pompa è l’esempio più diretto, visibile, ma non certo l’unico effetto.

Come  dimostrato da questi contraccolpi generali e da quelli più specifici, l’interdipendenza economica è totale, l’interconnessione tra le varie catene del valore altissima, la fragilità delle supply chain enorme. Non solo la guerra ce lo racconta: il blocco del Canale di Suez del marzo scorso, quando – per colpa di un incidente alla super portacontainer “Evergiven” (che Formiche.net ha intitolato il personaggio dell’anno) – sono state fermate 300 navi cargo producendo 9,6 miliardi di dollari al giorno di perdite, racconta di come questi lineamenti talassocratici (choke points) rappresentino debolezze strutturali al sistema della globalizzazione.

Debole dove l’aspetto tecnico logistico — connesso alla libertà di navigazione — si fonde con questioni di carattere politico e geopolitico. Non è casuale la sovrapposizione tra il commercio (e l’economia dunque) con le attività del Pentagono su certi ambienti geopolitici sensibilissimi come lo Stretto di Taiwan o il Mar Cinese, in cui gli Stati Uniti sottolineano la necessità della libertà di navigazione, consapevoli che questa è l’aspetto tecnico di una complicazione di carattere politico a monte.

Si tratta di sfide multidimensionali, minacce alla globalizzazione stessa: in particolare potrebbe venir meno il concetto dato per assunto secondo cui anche i Paesi che hanno grandi disaccordi possono continuare a fare affari tra loro su una scala sempre più ampia. Il ritiro di dozzine di super aziende globali dalla Russia in guerra racconta il contrario, i contatti restano ma il conflitto arrivato in un momento così delicato segna un punto.

Questo pesa sulle catene di approvvigionamento, faticosamente costruite nel corso di decenni e basate sull’idea che le stesse fossero salvaguardate dagli effetti politici internazionali. Ora il rischio che si stiano sgretolando è realistico. Nel fine settimana la Cina ha annunciato un blocco di una settimana di Shenzhen, una regione industriale che produce beni cruciali per molte catene supply chain globali, a causa di un picco di casi di Covid. Una mossa sulla linea della policy “Zero Covid” che è una necessità del Partito Comunista cinese per dimostrare che Pechino — accusata di essere il punto di partenza  della pandemia — è in grado di controllare la propria sicurezza sanitaria e di tornare (anche attraverso questo controllo) a proiettarsi negli affari globali.

La chiusura è solo l’ultimo colpo, in un momento in cui la guerra e le sanzioni stanno già mettendo a dura prova le forniture di materie prime. È in corso una collisione, un rapido cambiamento. La guerra di Putin in Ucraina ha causato un’impennata dei prezzi del petrolio, del grano e di molti metalli sui mercati delle materie prime (anche se poi seguiti da rapidi rimbalzi, beni come il nickel hanno sfondato i massimi storici), poiché la capacità produttiva di due grandi Paesi è essenzialmente tagliata fuori dal resto dell’economia globale. Effetti di dinamiche che fino al 23 febbraio sembravano anacronistiche quanto irrazionali.

Le prospettive economiche sono disordinate. I cambiamenti del mercato così rapidi riflettono questo periodo incerto. L’allineamento preoccupante tra Russia e Cina, sebbene proceda come tante reciproche sfiduce, ampia lo spettro di questa incertezza. In queste settimane le materie prime legate alla Cina sono precipitate così come l’indice tecnologico cinese, effetto dei nuovi lockdown ma anche di certe percezioni che riguardano i comportamenti di Pechino negli affari globali. Le guerre commerciali con dazi e controdazi, la risposta severa occidentale con le sanzioni alla Russia, ma anche quelle in essere sull’Iran, dimostrano ulteriormente come gli scontri di carattere politico (internazionale) ricadano sul mondo economico produttivo.

Contemporaneamente, quasi a conferma del livello di caoticizzazione, è successo che rendimenti dei titoli del Tesoro sono saliti ai livelli più alti dal 2019, ossia sono andati contro al modello classico dei tempi di crisi, quando normalmente si investe in asset sicuri come quei titoli, guidandone i loro rendimenti verso il basso. E questo racconta che gli investitori ancora non hanno ancora perso completamente fiducia, oppure cercano di cavalcare l’ondata speculativa. Nel giorno in cui si scrive questo articolo, mercoledì 16 marzo, la Russia ufficializza la volontà di pagare in rubli gli interessi sui bond emessi all’estero in dollaro, entrando tecnicamente in una forma di default.

L’impatto della guerra in Ucraina sul mercato energetico, e i contraccolpi su quello economico generale, mettono in chiaro la necessità di riflettere sul come “sviluppare una più armonica e chiara visione della nozione di sicurezza e dell’interesse nazionale declinato in tutti i campi in cui opera la nostra nazione”, ha scritto il docente della Lumsa Matteo Bressan su Domani, ipotizzando l’opportunità di allargare il dialogo tra i mondi che si occupano di politica estera, difesa e sicurezza a quelli che lavorano su energia, economia, sviluppo e industria.



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