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Le elezioni non sono così lontane, Draghi dovrà sporcarsi le mani

Ci avviamo infatti ad elezioni nazionali nel 2023 in cui si confronteranno due coalizioni fragili e piene di contraddizioni, per giunta messe seriamente in crisi dai gravissimi fatti delle ultime settimane. A Draghi toccherà fare politica eccome, di qui in avanti. Potrà mantenere un certo distacco senza mettere mano alla creazione di una sua formazione autonoma? Probabilmente sì, ma dovrà in qualche modo sporcarsi le mani. Il commento di Roberto Arditti

Tra meno di un anno si vota in Italia e lo scenario politico nazionale fa abbastanza impressione per ragioni che non possono sfuggire a chiunque voglia guardare oltre l’immediata contingenza. Ci avviamo infatti ad elezioni nazionali nel 2023 in cui si confronteranno due coalizioni fragili e piene di contraddizioni, per giunta messe seriamente in crisi dai gravissimi fatti delle ultime settimane.

Guardiamo a sinistra per cominciare. Il Pd è sostanzialmente al governo dal 2011 ed ha assunto nel tramonto della stagione berlusconiana le fattezze del partito di riferimento di quel che resta della classe dirigente nazionale. Così facendo ha incamerato molto potere (anche a livello locale) ed ha guadagnato una centralità oggettiva, riuscendo a superare una durissima crisi interna (l’uscita di Matteo Renzi, l’uomo del 41 % alle europee del 2014) e assorbendo senza soffrire troppo la breve fase (2016-2018) di “tripolarismo”, legata al boom di consensi del M5S, che rischiava di metterlo all’angolo. Il partito è quindi vivo e vegeto (più al centro che in periferia) ma non per questo capace di ampliare la sua base elettorale: il 20-21 % dei sondaggi di oggi è difficilmente capace di crescere in modo molto significativo.

Ciò impone al Pd una logica di alleanze elettorali con le forze alla sua sinistra (LeU in primis) ed anche con quelle alla sua destra, prima fra tutte il M5S (ma anche Azione e Italia Viva), creando così la perfetta coalizione priva di senso che ormai piace tanto ai dirigenti politici nostrani: non a caso nessuno in questa legislatura ha rispettato quello che aveva detto in campagna elettorale (tranne Giorgia Meloni).

Se poi aggiungiamo (a sinistra) lo smottamento politico derivante dalla crisi ucraina ecco palesarsi un’alleanza politica abbastanza impresentabile ed indifendibile, perché è del tutto evidente che tra Letta (e Draghi) e Conte c’è ben poco in comune sul fronte internazionale, che però sarà decisivo negli anni a venire. Così come è evidente che una parte della sinistra-sinistra continua a tifare contro Washington purchessia, anche di fronte ai carri armati in giro per l’Europa.

Dall’altra parte le cose non vanno meglio però. Innanzitutto perché il protagonista assoluto dell’ultimo quarto di secolo, cioè il Cavaliere, deve fare i conti con gli anni che passano ma anche con una amicizia personale con Vladimir Putin che sta saggiamente gestendo con basso profilo (meglio sposarsi, o quasi, che parlarne) ma che è nota a tutto il mondo. Poi c’è la Lega di Salvini, duramente provata da un significativo ridimensionamento elettorale e da polemiche varie sulle frequentazioni a Mosca, che sceglie da settimane una linea di opposizione all’uso delle armi assai poco compatibile con l’impostazione del governo italiano, che è quella della Commissione europea e che è anche quella della Nato. Infine c’è il partito di Giorgia Meloni, forte di consensi crescenti ma proprio per questo in polemica ormai nemmeno tanto garbata con i suoi alleati, un partito orgogliosamente di destra identitaria e patriottica che è però lontano dalle sensibilità di molti governanti europei, ad eccezione di Polonia e Ungheria.

Insomma anche a destra c’è maretta e ci sono problemi di collocazione internazionale, problemi che oggi sono sotto il pelo dell’acqua ma che sono pronti per riaffiorare con assoluto tempismo.

Tra i due blocchi non c’è molto, anche se va detto che Carlo Calenda con la sua Azione e Più Europa stanno provando a mettere in campo un soggetto in grado di rappresentare le istanze liberal-democratiche in quanto tali.

Siccome però l’Italia dovrà essere governata anche dopo il 2023, occorre prendere atto che siamo l’unico tra i Paesi europei il cui esecutivo è espressione di una alchimia d’emergenza congegnata al Quirinale con la decisiva esperienza di Sergio Mattarella, non a caso rieletto per un secondo mandato (segno di estrema debolezza e non di forza del sistema).

L’anno prossimo la Spagna e la Germania avranno al governo due coalizioni con al centro un leader socialista, la Francia avrà (molto probabilmente) un presidente liberal e la Gran Bretagna un liberale-conservatore a Downing Street.

Noi ci arriveremo con Mario Draghi, figura rispettata di banchiere centrale che da un anno sta facendo pratica in un nuovo mestiere, quello di governare. La sua dimensione di “tecnico” è stata essenziale per portarlo a Palazzo Chigi in situazione d’emergenza da pandemia.

Possiamo andare avanti così anche dopo le elezioni? In teoria sì, ma in pratica ad inizio legislatura si dovrebbe ragionare tenendo in massima considerazione i risultati delle urne, da cui far discendere l’alleanza di governo.

Per questo a Draghi toccherà fare politica eccome, di qui in avanti. Potrà mantenere un certo distacco senza mettere mano alla creazione di una sua formazione autonoma? Probabilmente sì, giacché fondare un partito (o anche solo una lista) non pare proprio nelle sue corde.

Però il prossimo governo dovrà essere figlio del voto degli italiani, quindi anche Draghi dovrà un po’ sporcarsi le mani. Tutto sommato ci sta.

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