Il nodo sul quale da oggi si giocherà la reputazione dell’Italia sarà la capacità di attrarre nuovi investimenti privati. Saremo in grado come Sistema Paese di garantirli e tutelarli? L’opinione di Stefano Cianciotta, presidente Osservatorio Infrastrutture Confassociazioni e Abruzzo Sviluppo
Tutte le volte che l’Italia dice no, il conto che i cittadini pagano è decisamente salato, a causa dell’opposizione ideologica alle infrastrutture, comprese quelle che avrebbero dovuto garantirci una maggiore diversificazione e autonomia energetica. Ad ascoltarle oggi queste parole, contenute nel saggio dal titolo I no che fanno la decrescita, che ho scritto nel 2018 insieme con Alberto Brambilla, suonano come uno schiaffo sonoro alle tasche dei cittadini italiani e alle centinaia di imprese che ogni giorno sono costrette a fermarsi per contenere i costi dell’energia.
Quel libro, una disamina sui veti che hanno impedito negli ultimi decenni al nostro Paese di progredire in termini di sviluppo e di crescita, è diventato in queste settimane di drammatica attualità. Perché quello che è accaduto da almeno un trentennio in Italia sul rapporto tra le infrastrutture e lo sviluppo economico, è figlio una riflessione conservativa, che dal referendum sul nucleare in poi si è guardato bene dal discutere di progresso in modo razionale, ponendo come priorità quella di diversificare le fonti energetiche e i Paesi fornitori.
Se a questo aggiungiamo anche le scelte di molti amministratori pubblici (in Puglia solo tre sindaci del Salento non hanno firmato la lettera al Presidente della Repubblica per chiedere di bloccare il Tap), preferendo il rinvio delle opere sine die, capiamo che quello che stiamo vivendo è solo il frutto di decisioni sbagliate, o peggio di decisioni ignorate o non prese.
Il tema dell’aumento dei costi dell’energia, amplificato prima dalla pandemia e poi aggravato dal conflitto ucraino, ha portato alla luce tutte le contraddizioni degli ultimi decenni nel Paese. Nelle bollette monstre delle aziende e delle famiglie c’è il paradosso che dagli Ottanta accompagna in Italia il rapporto tra ambiente e sviluppo economico, equazione costruita sulla pancia e mai sull’evidenza dei dati.
Prima il referendum per chiudere le centrali nucleari 1987, come se un ipotetico incidente al confine francese avesse messo l’Italia al riparo da una potenziale catastrofe nucleare, poi dal 1992 la fine dei partiti e l’accelerazione sempre maggiore contro le opere pubbliche e la necessità di intensificare i controlli e disciplinare le procedure (Antonio Di Pietro nel 1997 divenne ministro delle Infrastrutture), poi la “deriva” ambientalista con le battaglie dal 2007 in poi contro trivelle e gasdotti, che hanno aperto la strada al no a tutto e a nuovi movimenti politici.
In mezzo la Legge Obiettivo (2001), la cui finalità era quella di riportare in agenda il tema delle infrastrutture come leva strategica dello sviluppo. Poco per un Paese che negli ultimi trenta anni ha realizzato solo il 13% di nuove infrastrutture e che, Alta Velocità ferroviaria a parte, di nuove strade ne ha realizzate davvero pochine. Nel frattempo il Codice dei Contratti, approvato e revisionato 300 volte, invece di snellire le procedure è stato affetto dall’antico tarlo del pregiudizio della corruttela e della regolazione del mercato (le parole Anac e corruzione sono contenute nel testo 48 e 79 volte).
Siamo circondati da centrali nucleari, nell’Adriatico i Paesi della ex Jugoslavia estraggono petrolio e gas approfittando della nostra inerzia, l’Europa ci impone una road map decisa verso la transizione ecologica e preferiamo mettere a rischio decine di migliaia di posti di lavoro (citofonare Bosch e il suo indotto) invece di alzare la voce e negoziare, il rapporto di fiducia nei partiti e nella magistratura è ai minimi termini, nel Mediterraneo geopolitico siamo schiacciati dal disimpegno degli Usa e della Nato e il Canale di Sicilia è ormai il luogo dove giocano a dividersi il mondo senza di noi Turchia, Russia e Cina.
L’Algeria punta contro le nostre coste quattro sommergibili acquistati dalla Cina, difendendo le loro zone esclusive di pesca, e noi andiamo da loro ad implorargli di consegnarci un po’ di gas, così come stiamo facendo in Angola e Niger, Paesi controllati anche loro dalla Cina.
Dopo anni di vertenze che hanno bloccato le estrazioni, abbiamo scoperto invece che del gas ne abbiamo bisogno come il pane.
Siamo arrivati al punto in cui le scelte di breve periodo hanno creato una situazione drammatica. E dunque ora possiamo procedere solo a soluzioni tampone, riaccendere le centrali a carbone, le più inquinanti, con buona pace della transizione green e del Pnrr che dovrà essere riconsiderato almeno nella sua dimensione temporale.
E possiamo solo immaginare di riattivare nel più breve tempo possibile l’estrazione di gas dal nostro mare, che sarà però sufficiente a coprire meno del 10% del nostro fabbisogno. Nel frattempo però abbiamo allontanato potenziali investitori nell’Oil & Gas (Edison e Rockhopper), depauperato il know-how e la tecnologia nucleare italiana, aumentato la conflittualità sui territori, innescato il virus della demagogia e del populismo.
Il nodo sul quale da oggi si giocherà la reputazione dell’Italia sarà la capacità di attrarre nuovi investimenti privati. Saremo in grado come Sistema Paese di garantirli e tutelarli? Saranno davvero disposte le imprese a fare nuovi investimenti che rischiano di essere ostacolati ancora una volta dal dissenso, dalle vertenze territoriali, dai ricorsi amministrativi, dalla giungla burocratica? Abbiamo 568 impianti di estrazione, alcuni dei quali potrebbero essere rimessi in esercizio in 18 mesi, in particolare al largo dell’Emilia Romagna dove si concentrano i giacimenti più importanti.
Le amministrazioni locali invece di sostenere fantomatici comitati del no a tutto dovrebbero individuare le aree idonee a ospitare nuovi impianti e metterle a disposizione rapidamente, oltre che a sfruttare le opportunità previste per i piccoli impianti cittadini anche attraverso le Comunità Energetiche, che con l’autoconsumo consentirebbero di destinare il surplus dì energia alle famiglie più povere che non possono pagare le bollette.
Il completamento del primo parco eolico marino a Taranto promosso da Renexia, e il contestuale via libera del Governo ad altri sei parchi sono dei segnali incoraggianti. Ma siamo all’anno zero. Tornare a mettere al centro dell’agenda il tema dello sviluppo infrastrutturale del Paese, significa non solo dare una prospettiva di crescita all’Italia ma anche aumentarne la credibilità di fronte agli investitori e alle istituzioni internazionali, sul quale il prestigio del presidente del Consiglio dovrebbe costituire un elemento di assoluta garanzia. L’Opa di Krr su Tim, del resto, è nata anche da questi presupposti, che confluiscono nel naturale atlantismo del Paese, ribadito proprio da Draghi alle Camere in sede di presentazione del governo.