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Come la guerra in Ucraina sconvolge il Pnrr. Scrive Zecchini

Perché un riorientamento delle priorità, delle politiche e delle risorse da investire sarà probabilmente inevitabile, anche alla luce del nuovo piano di misure in gestazione a Bruxelles per fronteggiare la crisi determinata dalla dipendenza energetica dalla Russia. L’analisi di Salvatore Zecchini, economista Ocse

Col passare dei giorni e l’avvicinarsi delle scadenze elettorali diviene sempre più arduo per il governo tenere dritta la barra della politica economica verso l’attuazione del suo programma imperniato su riforme, massicci investimenti infrastrutturali ed attenta gestione della congiuntura.

La scorsa settimana ha avuto un’ulteriore prova delle crescenti difficoltà nel passaggio per l’approvazione parlamentare di riforme importanti, rientranti negli impegni presi con l’Ue, che toccano la proprietà catastale e il rinnovamento dell’assetto urbano. Altre, altrettanto controverse in seno alla stessa maggioranza politica, dovrebbero essere approvate in questi giorni, toccando aspetti ancor più decisivi, quali la concorrenza, l’ordinamento giudiziario e il miglioramento del codice degli appalti.

Nel contempo, a sconvolgere i piani sono sopraggiunti l’aggravarsi della crisi in Ucraina e la concreta possibilità che l’Ue insieme agli Stati Uniti accentuino le sanzioni contro la Russia e arrivino perfino a bloccare l’importazione di gas e petrolio, oltre ad assumere misure sul piano militare. L’incertezza sull’evoluzione degli eventi ha raggiunto nuovi picchi con immediati riflessi sulle quotazioni di energia e materie prime, spinte ai massimi storici, la corsa ai consueti assets rifugio e crolli sui mercati azionari. Negli ultimi trenta giorni, mentre la borsa americana ha in parte resistito (-7% dell’S&P 500), quelle europee, ovvero lo Stoxx 600 ha ceduto il 10%.

Le sanzioni commerciali sono una forma di guerra fredda che ha un limitato potere deterrente perché la sua efficacia dipende dal verificarsi di condizioni esterne al controllo di chi le impone e si presentano come un’arma a doppio taglio. Nella guerra in Ucraina, danneggiano la Russia nel suo punto più vulnerabile, l’economia e la finanza, ma danneggiano anche l’economia europea che dal crollo del regime sovietico ha sviluppato consistenti scambi di beni essenziali per lo sviluppo economico russo in cambio di materie prime, cereali e soprattutto energia.

L’Europa ha bloccato le esportazioni di tecnologia e di macchinari, accompagnandolo con una non completa chiusura delle relazioni finanziarie per impedire l’impiego di capitali europei per lo sviluppo della Russia. La reazione russa è stata un blocco più ampio delle importazioni dall’Ue e un congelamento degli investimenti europei in territorio russo.

Sul piano commerciale le sanzioni russe appaiono più efficaci di quelle europee, perché la Russia può aggirarle importando i beni richiesti da paesi terzi non soggetti alle sanzioni europee, come la Cina. Al tempo stesso, può continuare a esportare energia verso altri paesi, anche se a costi più alti a causa della maggiore complessità del trasporto rispetto all’uso dei gasdotti, che tuttavia sono geograficamente inflessibili. In altri termini, il gas che arriva in Europa tramite gasdotto non può essere facilmente dirottato ad altre aree.

Peraltro, negli ultimi decenni la Russia è riuscita a diversificare il suo export, vendendo metalli semilavorati, manufatti in legno, concimi e attrezzature perfino ad alta tecnologia, e penetrando in mercati extraeuropei con accordi di libero scambio e con la partecipazione all’Unione economica euroasiatica. Molto più efficaci sono le sanzioni finanziarie dell’Occidente con il congelamento dei conti bancari, degli investimenti di capitali e delle riserve valutarie (più del 30% è in euro), l’esclusione dal sistema di pagamenti Swift e dai mercati finanziari occidentali, e il blocco degli assets detenuti in Occidente.

Queste misure non sono aggirabili rivolgendosi ad altri Paesi perché il cuore finanziario dell’economia mondiale sta nel mondo sviluppato. Solo la Cina può offrire un’alternativa, ma questa ha una performance inferiore ed è sempre soggetta a maggiori rischi. In realtà, le sanzioni finanziarie come quelle commerciali non sono complete, in quanto si fanno eccezioni per l’import di energia e per alcune banche che restano nel sistema Swift per permettere il pagamento delle perduranti importazioni di prodotti petroliferi.

Se gli Usa e l’Ue applicassero le sanzioni anche a imprese di paesi terzi che avessero rapporti commerciali o finanziari con i paesi sotto sanzione, come nel caso dell’Iran, l’efficacia delle restrizioni sarebbe massima. Sul versante degli investimenti diretti esteri, l’Europa avrebbe da perdere più della Russia nel caso di un congelamento, perché i suoi assets superano quelli russi (300 miliardi di euro contro 136 investiti in Europa).

L’energia è, invero, l’arma principale con cui la Russia può ricattare l’Occidente e ne fa un uso astuto anche in questa guerra. Non ha finora interrotto le forniture di gas e petrolio perché ha un interesse maggiore di prima a continuare a guadagnare valute pregiate e a far tenere aperto per questo tramite un accesso al Swift per alcune sue banche. L’aumento degli introiti petroliferi a seguito del notevole rialzo delle quotazioni migliora le possibilità di coprire l’espansione delle spese di bilancio dovuta ai costi della guerra.

D’altronde, sa bene che la chiusura del gasdotto verso l’Europa comporta problemi tecnici per la conservazione dei giacimenti, perché quella produzione non può interrompersi facilmente, né può deviarsi rapidamente verso altri acquirenti. Col tempo, ovviamente, può trovare soluzioni, al pari di quanto può fare l’Europa, che in più anni può sostituire le forniture russe con altre.

Ma nel breve periodo l’Europa e in particolare Italia e Germania si trovano intrappolate in un’indesiderata dipendenza energetica dalla Russia (61%). L’Europa nel 2019 ha attinto al gas russo per circa il 41% del suo fabbisogno, al suo petrolio per il 27% e ai suoi combustibili solidi per il 46,7%. Nell’Ue la dipendenza energetica italiana dall’estero è tra le più elevate (73,4% nel 2020) e si concentra verso la Russia per il 40% della domanda di gas naturale, per l’11% del petrolio greggio, il 59% dei semilavorati petroliferi e il 56% dei combustibili solidi.

Il venir meno delle forniture energetiche russe insieme alle restrizioni all’import dall’Ue e agli straordinari rincari nei mercati energetici e di materie prime deprimerebbero la crescita dell’economia italiana sin da quest’anno e nei prossimi 3-5 anni. La trasmissione degli effetti avverrebbe attraverso diversi canali: per le imprese attraverso perdite di mercato, necessità di cercare nuovi sbocchi, impennata dei costi degli input per la produzione, limitazioni nelle forniture di energia.

Già alcuni comparti del Made in Italy lamentano l’improvvisa interruzione dei contratti e il bisogno di aiuti per compensare le perdite. Per il soggetto pubblico, attraverso la necessità di riformulare la politica energetica, il riposizionamento degli investimenti per ridurre la dipendenza dall’energia importata, la difficoltà ad avanzare nella transizione verde, la persistente inflazione, e gli aggravi di bilancio. L’erosione del potere d’acquisto delle famiglie dovuto all’impennata dei prezzi tenderebbe, inoltre, a deprimere la domanda per consumi.

La vittima più illustre al momento sarebbe l’attuazione tempestiva del Pnrr e in specie delle riforme di struttura e sistema. Le maggiorazioni dei costi primari a fronte di un ammontare fisso di risorse messe a disposizione riduce la possibilità di realizzare la quantità di opere programmate nei tempi predeterminati, a meno che giungano nuovi finanziamenti, che in buona parte vanno reperiti sui mercati dei capitali, ma che richiederanno anche un incremento del debito pubblico già su livelli rischiosi. L’aggravio per il bilancio pubblico sarebbe ancor maggiore se a questa ondata di rincari seguisse una rincorsa salariale per l’affermarsi di aspettative di un’inflazione persistente sugli attuali ritmi relativamente elevati.

Un riorientamento delle priorità, delle politiche e delle risorse da investire sarà probabilmente inevitabile, anche alla luce del nuovo piano di misure in gestazione a Bruxelles per fronteggiare la crisi determinata dalla dipendenza energetica dalla Russia. I capitoli del Pnrr sulla transizione verde e sulle infrastrutture per la mobilità sostenibile sono sempre cruciali, ma dovrebbero essere reinterpretati nel senso di accelerare quelle parti che contribuiscono a ridurre in tempi accelerati l’approvvigionamento di energia dalla Russia e sviluppare attraverso la diversificazione le fonti energetiche meno insicure e meno esposte a ricatti.

Ad esempio, più programmi e risorse per reti di trasporto d’energia sia in ambito nazionale ed europeo, sia con i paesi fornitori alternativi, più ricerca ed innovazione per sfruttare vettori energetici alternativi (l’idrogeno). Da accelerare sono anche i tempi per realizzare impianti per energie rinnovabili, gassificatori e maggiore ricerca e sfruttamento dei giacimenti interni.

Per quanti sforzi il governo stia facendo attraverso la semplificazione amministrativa e l’accorciamento dei procedimenti l’auspicabile accelerazione non sembra, tuttavia, realizzabile nel sistema attuale. Troppe le autorità coinvolte e le remore a cui si può ricorrere per intralciare il cammino, scarsa la capacità progettuale dei soggetti pubblici e privati sul territorio e carenti le competenze di lavoro disponibili. Si è perduta l’occasione del referendum del 2016 per riportare al governo centrale competenze in settori strategici come energia e trasporti. Si sono perduti anni per inseguire chimere sulle rinnovabili e soltanto negli ultimi anni si è investito massicciamente nell’efficienza energetica, ma in funzione del rilancio dell’edilizia. La sicurezza e l’autonomia energetiche sono passate in secondo piano.

La crisi ucraina mette anche a rischio altre riforme, come quella del catasto, del fisco e soprattutto della concorrenza di mercato, che dovrebbe servire a intaccare molte posizioni di rendita a livello locale. Influendo negativamente sulla crescita economica, che già da dicembre appare in rallentamento nell’industria, ed accrescendo i disagi per imprese e famiglie può smorzare il consenso e la determinazione ad avanzare nell’intento riformatore.

Ma può rappresentare altresì uno stimolo a puntare con maggior impegno nella digitalizzazione, sicurezza informatica, ricerca ed innovazione ed istruzione tecnico-scientifica. Non tutte le crisi finiscono per nuocere se affrontate razionalmente e con l’impegno di tutto il Paese. Possono, invece, essere occasione per accelerare il passo nel rinnovamento e nelle riforme, che in tempi normali sono fermate da ostacoli e resistenze.



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