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Gli effetti della guerra in Ucraina sul nucleare iraniano

I falchi di Teheran sembrano più decisi a dotare il Paese dell’arma facendo leva sull’inaffidabilità delle garanzie internazionali ottenute in passato da Paesi che, come l’Ucraina, disponevano di tali armamenti. Ora serve una strategia condivisa euroatlantica, anche contro i Pasdaran. L’intervento dell’ambasciatore Giulio Terzi di Sant’Agata, già ministro degli Esteri

Gli altalenanti negoziati per ripristinare l’accordo sul nucleare iraniano del 2015 sono di nuovo in stallo a causa dell’intransigenza di Teheran. Se l’ulteriore impasse può essere l’occasione per rivedere una strategia sbagliata in partenza, l’aggressione russa all’Ucraina – Paese che ha rinunciato nel 1994 al proprio armamento nucleare in cambio di “garanzie di sicurezza” sottoscritte anche da Mosca con il Memorandum di Budapest – modifica sostanzialmente alcuni presupposti. Infatti, i falchi del regime di cui Ebrahim Raisi è espressione sono, secondo alcuni osservatori, ancor più decisi a dotare il Paese dell’arma nucleare e farebbero leva, nei dibattiti interni al regime, sull’inaffidabilità delle garanzie internazionali ottenute in passato da Paesi che, come l’Ucraina, disponevano di tali armamenti.

Sin dal 2015 erano stati numerosi i critici dell’accordo originale, noto come Joint Comprehensive Plan of Action (Jcpoa), per le numerose falle in tema di livelli di arricchimento, verifiche, eliminazione e divieto di tipologie di centrifughe, sanzioni contro passate e future violazioni al regime di salvaguardie. Ciò che di fatto rendeva solo temporanee le restrizioni al programma nucleare iraniano, lasciando così aperta la possibilità di raggiungere comunque una break-out capability – la soglia nucleare – nel medio periodo. Il Jcpoa, inoltre, ignorava il programma di missili balistici sanzionato dalle risoluzioni del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite.

Il ripescaggio del Jcpoa manterrebbe inalterate queste e altre storture, rischiando di cancellare i pochi passi positivi recentemente compiuti dai paesi occidentali nei confronti del regime. Tra questi, il più importante è stata la designazione da parte degli Stati Uniti del Corpo delle Guardie Rivoluzionarie Islamiche (Irgc) come organizzazione terroristica.

La misura, adottata nel 2019 dall’amministrazione Trump, era auspicata da molto tempo. L’Irgc ha avuto un ruolo centrale in alcuni dei più efferati attacchi terroristici degli anni Ottanta e Novanta, e e continua sempre più ad averlo anche nel sostegno a gruppi proxy dell’Iran in Medio Oriente.

Il Consiglio nazionale della Resistenza iraniana denuncia e documenta da molto tempo la pericolosità del regime degli Ayatollah attraverso il suo principale strumento di attività terroristiche, la milizia Irgc. Un’azione, questa, che dovrebbe fare riflettere seriamente sul do ut des di una rinuncia a sanzionare il Corpo delle Guardie Rivoluzionarie Islamiche al fine di resuscitare un Jcpoa edulcorato e peggiorato rispetto persino alla sua già inaffidabile edizione originaria.

Tra l’altro, legittimare l’Irgc apparirebbe come un paradossale incoraggiamento al programma missilistico iraniano – a capacità nucleare – sviluppato sotto il controllo dell’Irgc che ne ha accelerato test e espansione durante l’intera fase dei negoziati per l’accordo nucleare.

Nel corso del 2019 l’Irgc ha realizzato un proprio programma spaziale che aumenta la portata dei missili fino all’Europa e agli Stati Uniti. I suoi comandanti si sono recentemente vantati dei progressi raggiunti annunciando la messa in orbita di un secondo satellite di sorveglianza. Un recente rapporto del Consiglio nazionale della Resistenza iraniana ha evidenziato come l’iscrizione dell’Irgc nella lista americana delle organizzazioni terroristiche abbia “ostacolato molte delle transazioni finanziarie estere legate a tale organizzazione”, il che spiega la condizione posta dal regime di annullare tale misura.

Il regime iraniano poggia su tre pilastri: la repressione interna; il dominio regionale; il programma nucleare come strumento di pressione sull’Occidente. In mancanza anche di uno solo di questi il regime potrebbe affondare tanto più che è proprio sul fronte interno che il regime sta vivendo le sue ore più critiche. Dal 2018 il popolo iraniano continua a ribellarsi contro i disastri provocati dal regime all’economia e alla salute pubblica, e contro un sistema di potere denunciato come “nemico del popolo” negli slogan delle sempre più numerose e accese manifestazioni di protesta in tutto il Paese.

Le milizie dell’Irgc sono protagoniste delle più sanguinose repressioni che hanno causato almeno 1.500 vittime durante le rivolte del novembre 2019. Nonostante ciò il popolo iraniano e le organizzazioni di “resistenza” non hanno piegato il capo, dando vita a ulteriori e sempre più diffuse proteste.

Mai come ora si dimostra necessaria una strategia condivisa euroatlantica che assicuri misure severe nei confronti del Corpo delle Guardie Rivoluzionarie Islamiche, e quindi dello stesso regime iraniano.

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